Racconto di fantasia Ninfomania

unoqualunque

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Aveva sbagliato lavoro.
Giada ne era sicura, quello non era adatto a lei.
Ma d’altra parte quale avrebbe dovuto essere l’impiego giusto per minimizzare i suoi problemi? Uno solo, la suora di clausura. E anche in quel caso forse il suo demone si sarebbe risvegliato ugualmente.
Era malata. Di una malattia incurabile e inconfessabile. Alcuni pensavano persino che quella patologia non esistesse, che fosse un mito, una leggenda. Ma lei testimoniava in carne e ossa che tutto ciò che se ne diceva era vero. Aveva fatto anche delle ricerche.
Personali.
Per carità non si sarebbe mai messa in testa di andare dal suo medico di famiglia per un consulto. Era una malattia da vivere nell’oscurità, nell’oblio. Nessuno poteva sapere, nessuno doveva sapere. Wikipedia le era stato d’aiuto. “La ninfomania è una patologia della sessualità femminile che spinge alla ricerca compulsiva di sesso”. Ne aveva parlato per primo nel 1770 un medico francese, JDT De Bienville nel suo trattato “La Nymphomanie, ou Traité de la fureur utérine (La ninfomania, ovvero trattato sul furore uterino)”.
La ninfomania dunque esisteva. E Giada ne era un esempio vivente.
La natura era stata particolarmente perfida con lei. Le aveva dato profondi occhi neri, lunghi capelli corvini e nel mezzo delle labbra carnose che era costretta a dissimulare con rossetti il meno appariscenti possibile.
La sua voglia di sesso le sconvolgeva la mente. Purtroppo era una repressa, non si poteva lasciare andare, doveva vivere il suo stato in silenzio, limitandosi alla sua razione standard di carnalitĂ  elargita dal suo ragazzo e da qualche sconosciuto che non avrebbe mai piĂą rivisto.

Il lavoro di architetto non la aiutava, troppe frequentazioni maschili: Muratori, idraulici, imbianchini, colleghi. Tutta questa fauna frequentava il suo studio e la faceva ingolosire come un cane davanti a una coscia di bue. Faticava spesso a seguire i discorsi perché invece di ascoltare i suoni che uscivano dalla bocca degli uomini davanti a lei, ne osservava le labbra immaginandole intente a scoprire tutte le zone nascoste della sua pelle. Si soffermava spesso a osservare quella zona dei pantaloni alla confluenza delle due gambe che racchiudeva la fonte del piacere. Aveva il terrore che gli uomini se ne accorgessero ed era probabile che qualcuno fosse stato riscaldato dalle sue occhiate infuocate tanto da immaginare l’eccitazione della donna.

Quel giorno faceva pure caldo. Evitava le minigonne e gli abiti troppo appariscenti per fare in modo che le occhiate interessate che le rivolgevano i maschi non la portassero nel suo limbo estatico. Quando andava in cantiere, usava abiti comodi, spesso jeans e magliette anonime. Il suo scopo era di passare inosservata. Non sempre ci riusciva.

Il capocantiere scese dall’impalcatura, dovevano esaminare i disegni per la realizzazione dell’edificio. Giada mise le carte su un tavolaccio formato da due assi e due cavalletti poi alzò lo sguardo. Dalla scaletta di ferro semiarrugginita stava avvicinandosi a lei una visione irresistibile. L’uomo era magro e abbronzatissimo, la sua tenuta era un paio di pantaloncini in jeans logori e costellati di macchie di cemento, scarpe antinfortunistiche e null’altro. La sua pelle sudata rifletteva il sole facendola sembrare di legno lucido di ulivo. L’uomo le si avvicinò.
Lei sperò di scomparire inghiottita dal fango del cantiere.
L’uomo mosse la bocca. Giada non sentì nulla, vide i denti bianchi, la lingua guizzante e le labbra screpolate dal sole.
-Cosa ha detto, mi scusi?- si riprese la donna.
-Le dicevo che la gettata di cemento è stata fatta, volevo sapere qual è lo spessore che dobbiamo dare alla soletta-.
Scorse i disegni cercando di dissimulare il tremito delle mani e arrivò alla tabella giusta. Giada cominciò a spiegare le specifiche tecniche che il muratore le aveva chiesto. Lui le si fece più vicino per consultare le carte. Lei cercò di non respirare, sapeva cosa sarebbe successo. La fame di aria la prese e suo malgrado dovette sentire quell’odore di corpo maschile sudato. Quel profumo celestiale le dava sempre alla testa, ebbe un capogiro che riuscì a nascondere e si allontanò dall’uomo quel tanto che basta per riuscire a diluire la fragranza di uomo con gli odori del cantiere. Il muratore equivocando disse –Mi scusi signorina, sono sudato ma sa, il caldo…-.
L’uomo non sapeva che Giada non avrebbe chiesto di meglio che di rotolarsi nuda su quel corpo umido per rimanere intrisa di quell’odore per tutto il giorno. Finalmente il capocantiere si allontanò lasciando Giada alla sua voglia di un corpo caldo da godersi.

La donna mentì a se stessa. In quanto direttore dei lavori uno dei suoi compiti era di vigilare anche sull’attrezzatura minuta affidata ai lavoratori. Questa veniva ritirata in una casupola in lamiera, l’unico posto lontano da sguardi indiscreti del cantiere. Un inventario degli attrezzi, ecco quello che doveva fare. In realtà cercava un posto intimo.
Entrò nella casetta, accostò la porta, accese la luce e si portò immediatamente la mano all’inguine. I jeans erano troppo rigidi. Li slacciò, infilò le dita sotto le mutandine e trovò l’umidità che si aspettava. Si portò la mano alle labbra e se le inumidì del suo umore. Riscese con le dita e cominciò, come si dice nei racconti erotici, a titillare il clitoride. “Titillare”, che verbo strano, le pareva una via di mezzo tra un suono di campanella e un gioco da bambini.
Il caldo in quella bara di lamiera era insopportabile, stille di sudore la avvolgevano. Nessuno l’avrebbe vista. Decise di togliere i jeans, poi le mutandine. Si accovacciò per eseguire al meglio il suo compito. Allargò le gambe il più possibile e inserì due delle sue dita affusolate nel suo sesso. Un rumore liquido accompagnava il suo sforzo di arrivare all’orgasmo e di liberarsi del suo demone che in quel momento la stava possedendo. Era scomoda e affaticata. Liberò il tavolo dagli attrezzi che vi erano abbandonati e si distese. Le gambe allargate verso il retro della casetta si appoggiarono sul ruvido legno e Giada ebbe un brivido. Ripartì a massaggiare alternativamente il piccolo bottoncino alla confluenza delle due grandi labbra e il loro interno.
Ci sono donne che preferiscono l’orgasmo clitorideo, altre il vaginale. Giada non si faceva mancare nulla, aveva provato entrambi e venerava sia l’uno sia l’altro. Le davano sensazioni diverse ma entrambe la soddisfacevano. Sentì qualcosa che si avvicinava, una sensazione conosciuta ma non per questo meno desiderabile. Accelerò il movimento. La sua vagina si deformava ora a destra ora a sinistra mossa dalle abili dita della donna.
Prese una decisione. Clitorideo. Si umettò le dita di saliva perché potessero scivolare meglio sul suo sesso, chiuse gli occhi e si addentrò nella selva da cui sarebbe uscita spossata e soddisfatta. Il mondo esterno non esisteva più c’erano solo le sue dita e quell’odore di maschio che la aveva ispirata.
Le sembrava di sentirlo ancora.
Lei adorava gli odori, quando appagava con la bocca il suo ragazzo o un partner occasionale si beava del profumo delle parti intime del maschio. Un odore acido che spesso la costringeva a allungare la mano sulla sua vagina pulsante mentre aveva le labbra piene del sesso di lui.
Stava per arrivare.
Un lieve formicolio le si sparse per il corpo. Si conosceva bene, pochi minuti e sarebbe stata in grado di uscire da lì sudatissima e odorante di sesso. Sperò di non incontrare nessuno. Ecco, sentiva l’orgasmo salire. Pochi secondi.
A occhi chiusi s’immaginò in un bosco mentre correva nuda, una sensazione di calore la avvolgeva.
Eccolo.
Fece un gemito poi lo soffocò il più possibile. Le dita impazzite strofinavano senza sosta il clitoride che ormai le bruciava. Tutti i sensi fecero una pausa per godersi quei pochi secondi di paradiso. Vide gli alberi, il fiume, la pioggia che le bagnava il viso. Il respiro affannoso cominciò a calare, i sensi che la avevano abbandonata tornarono con calma a fare il loro lavoro.
Le palpebre, serrate fino a quel momento, si riaprirono lentamente ma lei fece fatica a decodificare la visione che le apparve. Il cervello cominciò a elaborare e capì.
Le sovrastava il viso un membro maschile che, dopo avere rovesciato su di lei quello che le era parsa una tiepida pioggerellina primaverile, stava abbandonando la posizione eretta per seguire la forza di gravitĂ  e voltarsi verso il basso.
Attaccato a quel pene c’era il capocantiere, nudo dalla vita in giù, con un viso decisamente soddisfatto.
 

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