Esperienza reale Cambiamenti.

rancu

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Non so perché scrivo questa storia qui. Forse ho soltanto bisogno che qualcuno la legga. Vi avverto, non è la classica storia da "sventriamo le papere": se cercate soltanto quello cambiate racconto. I fatti narrati hanno tutti un filo logico, sono tutti intrecciati tra di loro, ma alcuni risalgono ad anni ed anni fa. Altri, invece, stanno addirittura avvenendo. Il tempo del racconto, comunque, sarà sempre il passato remoto. Voglio essere chiaro fin da subito: ci saranno temi forti come disagio, bullismo ed umiliazioni. Come già detto, se cercate altro andate altrove. Inoltre tutto ciò che narrerò sarà frutto della mia esperienza personale ed è tutto vero al 100% (a parte i nomi che cambierò per ovvi motivi.) Detective, se volete investigare, non è questa la storia giusta. Non verranno fornite foto né screenshot di whatsapp, per quanto non io non abbia problemi a riportare conversazioni avvenute o che stanno avvenendo. Le scriverò quando sarà necessario. Scriverò a puntate non molto lunghe, cercando di sfruttare i vari momenti liberi. Capiteranno pause più o meno prolungate nel tempo, ma non sparirò. O per lo meno cercherò di non farlo.

1.

Me ne stavo seduto al bancone, in silenzio, a fissare il boccale di birra schiumante davanti a me.
Li attendevo uno dopo l'altro, con un sorriso sfacciato stampato sul volto.
Per l'occasione avevo lasciato i capelli sciolti, che con la lunga barba scura mi rendevano praticamente irriconoscibile.
Meglio, pensai sulle prime. Voglio proprio vedere le loro facce incredule.
Non so nemmeno come avevano fatto a procurarsi il mio numero.
O meglio, lo immaginavo: erano rimasti dei cugini e degli zii nel mio paese, gli unici parenti con i quali continuavo a parlare. Probabilmente avevano sentito loro, che avevano pensato bene di girare il mio contatto senza nemmeno chiedere.
Avevo impiegato anni per cancellare gran parte della mia vita. Anni in cui avevo tentato freneticamente di smacchiare l'onta delle umiliazioni subite, come patacche da scrostare dalla camicia.
Era francamente curiosa la mia presenza lì, dopo tutta quella fatica.
In parte me ne dispiacevo.
Per altri versi, invece, ero dove dovevo essere.

Entrarono uno dopo l'altro, iniziando subito a parlottare tra di loro.
Li squadravo dalla mia postazione e come avevo sospettato nessuno si accorse di me. Semplicemente, stavo aspettando un passo falso di una delle mie prede. Li guardavo, li fissavo con gli occhi famelici di un lupo pronto a sbranarli...ed ammisi a me stesso che mi stavo divertendo.
Ed eccola lì, eccola lì la mossa, la domanda che desideravo.
La sentii distintamente, ne ero certo.
"Ma Mulo dov'è?" chiese Franceso. Era vicino a Lucrezia, sua moglie, che scosse la testa non sapendo cosa rispondere.
Scesi dallo sgabello.
Con le mani in tasca mi avvicinai a passo lento, cadenzato, senza mai staccargli gli occhi di dosso.
Mi ci vollero secondi, ma a me sembrarono ore. Tutto il vociare del locale si ovattò di colpo, sparì in un istante: ora sentivo solo il rumore dei miei passi risuonare nella sala comune. Uno, due, tre, un altro ancora. Ormai ero lì.
Torreggiavo davanti ad entrambi, li sovrastavo di una ventina di centimetri buoni. Sorrisi, e non fu un sorriso amichevole.
"Sono io." dissi. "Io sono Mulo."
Francesco, Lucrezia e tutt gli altri che erano con loro mi guardarono esterrefatti.
In un attimo, tra i miei aguzzini, calò il gelo.
Ed era proprio quello che volevo....
 
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rancu

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1.1

Durante il liceo non ero come ora.
Alto lo sono stato sempre, ma ero magrissimo, allampanato, al limite del normale. Avevo i capelli costantemente rasati a zero, niente poteva nascondere le mie orecchie vagamente a sventola. In più, ho da sempre avuto occhi azzurri, chiarissimi, che tuttora sembrano biglie di vetro. Più che venire apprezzati, mi donavano uno sguardo inquietante, che unito a tutto il resto mi rendevano per qualche ragione detestabile.
Insomma, con me hanno sempre fatto i loro porci comodi.
E non ho mai avuto la "fortuna", si fa per dire, di essere il classico ragazzo invisibile. Mi vedevano, eccome: non perdevano mai occasione di denigrarmi, umiliarmi, insultarmi per qualsivoglia motivo.
Non lo davo a vedere, cercavo di non farlo, ma in cuor mio soffrivo: ogni giorno, quando entravo in aula, non sentivo il rumore della porta chiudersi dietro le mie spalle, bensì il clangore metallico delle sbarre di una prigione che ti impedisce di fuggire. Lì ero in trappola, alle prese con le loro angherie.
Francesco, all'epoca, era il classico figo desiderato da tutte. Se la faceva già con Lucrezia, che poi correva a raccontare tutto alle sue più care amiche: Rebecca e Veronica. Loro tre sono sempre state belle ragazze: ogni anno che passava sbocciavano come un fiore che viene annaffiato. Le loro forme lievitavano, soprattutto quelle di Veronica, e avevano lo straordinario potere di vincere la forza di gravità.
Lucrezia ha sempre tenuto i capelli corti, anche da ragazza. Valentina, invece, aveva lunghi capelli biondi, in netto contrasto con la pelle costantemente abbronzata ed occhi scuri, dal taglio leggermente orientale. Rebecca era riccia, aveva questa enorme cascata di boccoli che le accarezzavano le spalle e che sobbalzavano come molle ad ogni suo minimo movimento. Loro tre, mi ricordo, erano molto ambite, pure dai ragazzi delle altre sezioni.

Iniziarono a chiamarmi Mulo il secondo anno, durante l'ora di educazione fisica. Quell'anno, ricordo, avevano rinnovato la palestra ed avevano istallato delle docce per ogni spogliatoio. Decisi di usufruirne: già la mia situazione non era buona, figurarsi tornare in classe sudato come una capra. Emanare cattivi odori era l'ultima cosa che ci voleva, motivo per cui portai il cambio e decisi di lavarmi.
A pensarci ora, sarebbe stato meglio puzzare.
Appena tolsi la maglia partirono i primi insulti, quelli a cui ero più o meno abituato. Fai schifo, hai un fisico di merda, con le costole ci gioco a shangai, cose di questo genere.
Tolsi i pantaloni, lo stesso per le mie gambe.
Quando feci cadere gli slip per un attimo rimasero in silenzio. Videro la mia dotazione, si scambiarono occhiate dapprima sorprese, poi divertite. Infine scoppiarono a ridere come pazzi e mi derisero anche perché ce lo avevo grande.
Questo, più di tutti, è stato qualcosa che mi ha ferito. Potete pensare ciò che volete, che io sia fortunato ad essere dotato, che sia una cosa bellissima, ma la verità è che ai loro occhi io ero soltanto diverso, diverso anche nella misura del pene. Io ero differente in tutto e questo, per loro, era costantemente motivo di scherno. Il mio soprannome, Mulo, venne coniato in quell'occasione. Mi si appiccicò addosso come la gomma da masticare sotto i banchi di scuola. E proprio come quell'agglomerato di sostanze chimiche, con il tempo si cementò, ancorandosi in maniera perpetua alla mia anima.
Mi ferirono al punto tale che, nella mia ignoranza da adolescente, pensai di operarmi per farlo diventare normale. Non riuscivo più a farmi vedere nudo, nemmeno con i miei familiari o mia sorella, con i quali non avevo mai avuto segreti di questo genere. Da quel giorno cambiò tutto, iniziai a girare per casa costantemente vestito. Impiegai del tempo per superare la cosa, non mi vergogno di dire che per questo sono stato persino in terapia. Il ventiduesimo anno di età incontrai una persona fantastica, una Donna magnifica che in parte mi fece diventare l'uomo che sono ora. Le cose non sono andate per il verso giusto, tra di noi, ma riuscì, in qualche modo, a farmi superare il problema.
Questa, però, è un'altra storia...
 

Stewie899

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Purtroppo certi bulli si attaccano a qualsiasi pretesto pur di insultare e umiliare un ragazzo, persino la sua dotazione fuori dalla norma, che al contrario dovrebbe essere un vanto
 
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rancu

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2.

Fissai Francesco per attimi interminabili, feci lo stesso con Lucrezia, infine con gli altri. C'era sorpresa, nei loro occhi, poi via via si faceva spazio un sentimento che io conoscevo bene. I loro sguardi erano come libri aperti per me, per me che quelle emozioni le avevo provate per anni interi. Vedevo paura, vergogna, una sorta di terrore. E per quanto io non sia un tipo particolarmente vendicativo, in parte ne gioivo, seppur senza farlo vedere. Francesco balbettò qualcosa mentre mi studiava dal basso all'alto. Il suo sguardo, invece, aveva un altro significato: mi stava silenziosamente chiedendo scusa.
Ora che lo guardavo mi faceva quasi pena: il tempo, con lui, non era stato clemente, non come con sua moglie almeno. Aveva perso gran parte dei capelli e il suo volto era stanco e smunto. Gli addominali erano spariti, al loro posto una gonfia pancia da incallito bevitore di birra.
Lucrezia, invece, era molto bella, come sempre lo era stata. Quella sera indossava un lungo abito verde che risaltava il colore dei suoi occhi, della stessa tonalità degli smeraldi. Riusciva ad esaltarli con una matita scura, che si mescolava alla perfezione con l'incarnato olivastro. I capelli neri, alla maschietta, incorniciavano un viso grazioso, con qualche ruga da quarantenne che aveva appositamente lasciato scoperta, senza fondotinta.
Alternavo lo sguardo tra i due, li fissavo con i miei occhi azzurri, chiari, quelli che avevo sempre avuto. Allo stesso modo di Francesco, anche le mie occhiate avevano messaggi subliminali: lui stava implorando per il mio perdono, io non glielo avrei mai concesso.
Mi ero sempre detto che quelle erano state sciocchezze da ragazzi e che avrei davvero soprasseduto, un giorno. Ora che lo avevo lì, tuttavia, non riuscivo a dargli ciò che voleva, non riuscivo a cancellare tutto ciò che lui e gli altri erano stati capaci di fare.
Iniziò a serpeggiare una vocina, nella mia testa. "Vattene da lì", mi ripeteva. "Scappa, torna a casa, eliminali dalla tua vita." Ascoltarla sarebbe stato semplice: non dovevo nulla ai bulli che mi avevano martoriato. Così facendo, però, li avrei fatti vincere. Di nuovo.
Prevalse il buonsenso: con uno sforzo disumano accartocciai quella vocina come si fa con un foglio ormai logoro. La gettai in un cestino, nell'angolo più recondito della mia mente.
Distesi i muscoli della faccia in un sorriso bonario e gli diedi una pacca sulla spalla.
"Tranquillo." dissi. "una rimpatriata, ogni tanto, è ben gradita."

Ci sedemmo in fretta e furia, vicino a me avevo Veronica da una parte, Walter dall'altra.
Di tutte le persone sgradevoli che avevo conosciuto in vita mia, Walter forse era il peggiore. Non solo per le sue reiterate azioni da bullo, quanto più perché, ne ero certo, non era lui a volerle. Lui era terrorizzato di diventare come me, in passato, motivo per cui assecondava tutto ciò che Francesco diceva. Era il suo leccapiedi personale, un inetto, un mezzo uomo.
Quella sera venni a sapere che pure lui aveva avuto successo: era diventato il direttore generale di una grossa azienda, e la cosa per qualche motivo mi mandava in bestia. Non perché fossi invidioso, non avrei mai cambiato la mia attuale situazione con la sua, quanto più perché era riuscito a scalare le gerarchie sociali leccando culi a destra e a manca. Insomma, tra tutti, forse era Walter quello che mi infastidiva di più.
Dall'altra parte, invece, c'era Veronica. Quella sera aveva jeans e maglia scura, con una vertiginosa scollatura che lasciava poco spazio all'immaginazione. Notai con sorpresa che aveva tinto i capelli: da biondi che erano, li trovai di un nero corvino. Abbronzata lo era sempre stata, ma quella sera sembrava essere tornata dal mare da una decina di minuti. La sua pelle era scura, liscia, ed emanava un odore indefinito, forse mandorla, molto piacevole.
Ad ogni modo, furono tutti molto curiosi di sapere come avevo fatto a cambiare in quella maniera.
"Sacrifici." risposi. Ed era in parte vero.
Raccontai loro che dopo essermi trasferito con i miei, al Nord, avevo iniziato a lavorare con mio padre in una fabbrica di vernici. Parallelamente avevo deciso di iscrivermi in palestra, omisi il fatto che fui costretto dai problemi che avevo alle articolazioni: dovevano sopportare uno sforzo eccessivo del lavoro che svolgevo, non essendo aiutate da una muscolatura altrettanto forte. Nel giro di qualche anno, con la giusta alimentazione e il giusto allenamento, presi molti chili, rimettendomi completamente in forma. In più, a tempo perso, seguivo delle lezioni universitarie, ma senza essere iscritto. Andavo soltanto ai corsi che desideravo, ascoltavo una lezione o due delle materie che più mi piacevano (paleoantropologia su tutte), poi me ne tornavo a casa, a riflettere su ciò che avevo appreso. In realtà, non avevo abbastanza soldi per iscrivermi all'università. Il motivo erano le sedute dallo psicologo che costavano un occhio della testa. Ci andavo di tasca mia, e non dissi nulla né ai miei, né a mia sorella.
In effetti, il mio cambiamento aveva del miracoloso. Nell'ultimo ventennio sono cresciuto venticinque chili, più o meno. Ho lasciato allungare i capelli, la barba, forse perché volevo proprio tagliare i ponti con il me del passato. O forse per paura che quello che avevo vissuto potesse tornare a farmi visita. Tuttavia c'era una cosa che non era mai mutata: il mio modo di vestire. Jeans e felpa d'inverno, pantaloni corti, canotta e ciabatte d'estate, delle vie di mezzo nelle altre stagioni. Quella sera avevo una T-shirt scura e dei Jeans chiari, anche abbastanza logori per l'usura.
Come avevo preventivato, venni tempestato da svariate domande, a cui risposi senza timore.
Alla fine, e non so perché impiegai così tanto, fui io ad avere la necessità di chiedere qualcosa.
"E Giacomo?" domandai con malcelata curiosità. "Dov'è Giacomo?"
 
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rancu

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Giacomo era gay.
Me lo aveva detto un giorno d'estate, mentre eravamo al laghetto a pescare. Mi guardò con quegli occhi chiari, il viso angelico contornato da boccoli d'oro e la speranza, nell'occhiata che mi rifilò, che io non dicessi niente a nessuno.
Gli sorrisi senza aprir bocca, era il mio modo per rassicurarlo del mio silenzio. In cuor mio io l'avevo sempre saputo.
Le voci però iniziarono a circolare per via del suo comportamento. Era un ragazzo molto bello, molto ambito, solo che lui rifiutava costantemente ogni approccio con il gentil sesso, motivo per cui cominciarono a prenderlo in giro con frasi come "Frocio di Merda, Recchione, orecchie di gomma". Ogni volta era come se morisse dentro, lo vedevo dai suoi occhi. Ed ogni volta, in lui, cresceva la voglia di tenere nascosto il suo vero essere.
Gli anni delle superiori furono un vero inferno per entrambi.
L'estate del quinto, invece, assaporavo l'aria di libertà. Non che io avessi chissà quali grandi piani, ma almeno mi sarei scrollato di dosso quei parassiti dei miei compagni. E prprio come parassiti, che vivono alle spalle di qualcun altro, così facevano loro, basando le loro felicità sulle sventure e sul dolore altrui.
I miei sogni, però, s'infransero come un castello di sabbia in un tornado. I miei decisero di trasferirsi e io dovetti partire con loro.
Pioveva quel giorno, ma faceva molto caldo. Con la mia bici sfrecciai a casa di Giacomo e bussai spasmodicamente alla sua porta.
Mi aprì stralunato, non capiva il perché di tutta quella fretta.
"Parto." gli dissi senza girarci intorno, il cuore mi scoppiava nel petto.
Mi guardò per attimi infiniti.
"E dove te ne vai?" mi chiese ad una certa.
"Al nord. I miei vogliono così."
"Tornerai?" domandò alla fine.
Non sapevo cosa dirgli. Rimasi in silenzio, scrollai le spalle, lasciai che il rumore dell'acqua ci avvolgesse.
Comparve un sorriso sul suo volto, non uno di quelli felici, nemmeno uno di quelli che servono per mascherare tristezza. Un sorriso vuoto, come di chi sta perdendo qualcosa. Mi si avvicinò con una lentezza disarmante e mi stampò un bacio sulle labbra che durò per attimi interminabili.
Alla fine mi abbracciò.
E non ringraziai mai abbastanza la pioggia di coprire le mie calde lacrime.



La vita scorre come i granelli di sabbia nella clessidra. Un secondo, un giorno, un anno. E già sei cresciuto senza accorgertene.
Avevo avuto milioni di occasioni per ricontattare Giacomo, ma non sentirlo era una di quelle cose talmente tanto reiterate nel tempo che alla fine mi ci abituai. In più, dentro di me, cresceva l'idea che mi considerasse uno stronzo per tutti quegli anni di silenzio. All'epoca non avevo nemmeno un telefono cellulare. Con la tecnologia avrei potuto creare un qualsiasi account social per cercarlo, ma non lo feci. Non solo perché aborro l'idea di spiattellare la mia vita su una piattaforma, quanto più perché, davvero, mi vergognavo di non avergli scritto prima. Alla fine rimandai all'infinito, senza più trovare il coraggio di farlo.
Quella sera, però, mi sembrò diverso, principalmente perché ero tornato e potevo vederlo di persona. Magari fargli una sorpresa e ridere come facevamo al lago, da ragazzini, a cercare invano di catturare qualche pesce.
La sua assenza a cena non mi stupiva più di tanto, era più la mia presenza ad essere sorprendente.
Fu Lucrezia a parlare.
"Giacomo non c'è, è partito poco dopo di te e non è più tornato. Lo abbiamo contattato comunque per la cena, ma ci ha detto di no, chiedendoci di non essere aggiunto al gruppo." mi spiegò in tutta tranquillità. Nelle sue parole constatai che non c'era più quella voglia di umiliarlo come un tempo.
"Avete il suo numero?" chiesi senza fronzoli. Non sapevo perché, ma ora morivo dalla voglia di sentirlo. Il fatto che fosse partito mi mandava fuori di testa: in un secondo ero passato dal poterlo rivedere, al doverlo rincorrere di nuovo. Stavolta, mi promisi, non l'avrei fatto.
Lucrezia annuì e mi girò il numero.
"Senti..." fece Francesco bloccandomi il braccio. Sorrise sornione. "Ti va se questi giorni ci organizziamo per una partita di calcetto?"
Mi venne da ridere. Davvero me lo stava chiedendo? Mi guardai intorno, fissai i volti di tutti, cercando una minima reazione che mi consentisse di dire "ok, è tutto uno scherzo." Come riusciva a farlo? Davvero non si rendeva conto del male che mi aveva inferto? Mi voltai verso sua moglie, mi lanciò uno sguardo che dapprima faticai a comprendere. Lei annuì con la testa, allargando gli occhi. Ed io feci lo stesso in direzione di Francesco.
"Ok, va bene." Dissi lapidario.
"Splendido!" esclamò. Era davvero contento del fatto che risposi affermativamente al suo invito. "Allora organizzo e ti faccio sapere."
La serata proseguì, chiacchierammo del più e del meno, fino a quando non me ne tornai a casa e crollai esausto sul letto.
Avevo una tempesta di pensieri in testa. Ora morivo dalla voglia di risentire Giacomo, di scusarmi per la mia assenza, di organizzare un incontro, qualcosa che potesse riavvicinarci. Pensavo a Francesco, all'idea di doverlo rivedere, all'idea di dovermi spogliare di nuovo di fronte a lui. Avrei potuto tornarmene a casa a farmi la doccia, ma la psicologa aveva combattuto molto sul fatto che avrei dovuto riaffrontare le mie paure per superarle definitivamente. Spogliarmi negli spogliatoi della palestra, davanti a sconosciuti, era stato il primo passo. Quello, probabilmente, doveva essere l'ultimo. Una parte di me era sicura del mio successo: ora ero più sicuro di me, avevo avuto numerose storie, in molti mi avevano visto nudo fregandosene completamente, perché stavolta doveva essere diverso?
Perché loro sono i tuoi aguzzini, mi ripeteva l'altra parte di me. La maledii per la sua schiettezza e cambiai repentinamente il soggetto del mio frenetico pensare.
Ed ecco che mi tornò in mente lo sguardo di Lucrezia, non capivo cosa diavolo volesse dire. Che significava quell'occhiata? Che intenzioni aveva?
Alla fine stavo quasi per abbandonarmi a Morfeo, la psiche frullata in un turbinio di preoccupazioni. La vibrazione del cellulare, però, mi tenne sveglio per un momento in più.
Ebbi un sussulto, come se il destino mi avesse letto nel pensiero: era un messaggio whatsapp di un numero che non avevo in rubrica, ma la foto del profilo e il contenuto del testo fugò ogni dubbio sul mittente.
"Ciao Remo, sono Lucrezia. Forse non dovrei scriverti, ma ecco. Volevo chiederti scusa, per tutto. Grazie per aver accettato l'invito di Francesco. Includerti nelle sue cose è un modo per chiederti perdono. Sono contenta di averti rivisto e di aver visto che stai bene. Notte."
Morfeo mi abbandonò defintivamente.
E quella notte la passai in bianco.
 

redifiori

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Giacomo era gay.
Me lo aveva detto un giorno d'estate, mentre eravamo al laghetto a pescare. Mi guardò con quegli occhi chiari, il viso angelico contornato da boccoli d'oro e la speranza, nell'occhiata che mi rifilò, che io non dicessi niente a nessuno.
Gli sorrisi senza aprir bocca, era il mio modo per rassicurarlo del mio silenzio. In cuor mio io l'avevo sempre saputo.
Le voci però iniziarono a circolare per via del suo comportamento. Era un ragazzo molto bello, molto ambito, solo che lui rifiutava costantemente ogni approccio con il gentil sesso, motivo per cui cominciarono a prenderlo in giro con frasi come "Frocio di Merda, Recchione, orecchie di gomma". Ogni volta era come se morisse dentro, lo vedevo dai suoi occhi. Ed ogni volta, in lui, cresceva la voglia di tenere nascosto il suo vero essere.
Gli anni delle superiori furono un vero inferno per entrambi.
L'estate del quinto, invece, assaporavo l'aria di libertà. Non che io avessi chissà quali grandi piani, ma almeno mi sarei scrollato di dosso quei parassiti dei miei compagni. E prprio come parassiti, che vivono alle spalle di qualcun altro, così facevano loro, basando le loro felicità sulle sventure e sul dolore altrui.
I miei sogni, però, s'infransero come un castello di sabbia in un tornado. I miei decisero di trasferirsi e io dovetti partire con loro.
Pioveva quel giorno, ma faceva molto caldo. Con la mia bici sfrecciai a casa di Giacomo e bussai spasmodicamente alla sua porta.
Mi aprì stralunato, non capiva il perché di tutta quella fretta.
"Parto." gli dissi senza girarci intorno, il cuore mi scoppiava nel petto.
Mi guardò per attimi infiniti.
"E dove te ne vai?" mi chiese ad una certa.
"Al nord. I miei vogliono così."
"Tornerai?" domandò alla fine.
Non sapevo cosa dirgli. Rimasi in silenzio, scrollai le spalle, lasciai che il rumore dell'acqua ci avvolgesse.
Comparve un sorriso sul suo volto, non uno di quelli felici, nemmeno uno di quelli che servono per mascherare tristezza. Un sorriso vuoto, come di chi sta perdendo qualcosa. Mi si avvicinò con una lentezza disarmante e mi stampò un bacio sulle labbra che durò per attimi interminabili.
Alla fine mi abbracciò.
E non ringraziai mai abbastanza la pioggia di coprire le mie calde lacrime.



La vita scorre come i granelli di sabbia nella clessidra. Un secondo, un giorno, un anno. E già sei cresciuto senza accorgertene.
Avevo avuto milioni di occasioni per ricontattare Giacomo, ma non sentirlo era una di quelle cose talmente tanto reiterate nel tempo che alla fine mi ci abituai. In più, dentro di me, cresceva l'idea che mi considerasse uno stronzo per tutti quegli anni di silenzio. All'epoca non avevo nemmeno un telefono cellulare. Con la tecnologia avrei potuto creare un qualsiasi account social per cercarlo, ma non lo feci. Non solo perché aborro l'idea di spiattellare la mia vita su una piattaforma, quanto più perché, davvero, mi vergognavo di non avergli scritto prima. Alla fine rimandai all'infinito, senza più trovare il coraggio di farlo.
Quella sera, però, mi sembrò diverso, principalmente perché ero tornato e potevo vederlo di persona. Magari fargli una sorpresa e ridere come facevamo al lago, da ragazzini, a cercare invano di catturare qualche pesce.
La sua assenza a cena non mi stupiva più di tanto, era più la mia presenza ad essere sorprendente.
Fu Lucrezia a parlare.
"Giacomo non c'è, è partito poco dopo di te e non è più tornato. Lo abbiamo contattato comunque per la cena, ma ci ha detto di no, chiedendoci di non essere aggiunto al gruppo." mi spiegò in tutta tranquillità. Nelle sue parole constatai che non c'era più quella voglia di umiliarlo come un tempo.
"Avete il suo numero?" chiesi senza fronzoli. Non sapevo perché, ma ora morivo dalla voglia di sentirlo. Il fatto che fosse partito mi mandava fuori di testa: in un secondo ero passato dal poterlo rivedere, al doverlo rincorrere di nuovo. Stavolta, mi promisi, non l'avrei fatto.
Lucrezia annuì e mi girò il numero.
"Senti..." fece Francesco bloccandomi il braccio. Sorrise sornione. "Ti va se questi giorni ci organizziamo per una partita di calcetto?"
Mi venne da ridere. Davvero me lo stava chiedendo? Mi guardai intorno, fissai i volti di tutti, cercando una minima reazione che mi consentisse di dire "ok, è tutto uno scherzo." Come riusciva a farlo? Davvero non si rendeva conto del male che mi aveva inferto? Mi voltai verso sua moglie, mi lanciò uno sguardo che dapprima faticai a comprendere. Lei annuì con la testa, allargando gli occhi. Ed io feci lo stesso in direzione di Francesco.
"Ok, va bene." Dissi lapidario.
"Splendido!" esclamò. Era davvero contento del fatto che risposi affermativamente al suo invito. "Allora organizzo e ti faccio sapere."
La serata proseguì, chiacchierammo del più e del meno, fino a quando non me ne tornai a casa e crollai esausto sul letto.
Avevo una tempesta di pensieri in testa. Ora morivo dalla voglia di risentire Giacomo, di scusarmi per la mia assenza, di organizzare un incontro, qualcosa che potesse riavvicinarci. Pensavo a Francesco, all'idea di doverlo rivedere, all'idea di dovermi spogliare di nuovo di fronte a lui. Avrei potuto tornarmene a casa a farmi la doccia, ma la psicologa aveva combattuto molto sul fatto che avrei dovuto riaffrontare le mie paure per superarle definitivamente. Spogliarmi negli spogliatoi della palestra, davanti a sconosciuti, era stato il primo passo. Quello, probabilmente, doveva essere l'ultimo. Una parte di me era sicura del mio successo: ora ero più sicuro di me, avevo avuto numerose storie, in molti mi avevano visto nudo fregandosene completamente, perché stavolta doveva essere diverso?
Perché loro sono i tuoi aguzzini, mi ripeteva l'altra parte di me. La maledii per la sua schiettezza e cambiai repentinamente il soggetto del mio frenetico pensare.
Ed ecco che mi tornò in mente lo sguardo di Lucrezia, non capivo cosa diavolo volesse dire. Che significava quell'occhiata? Che intenzioni aveva?
Alla fine stavo quasi per abbandonarmi a Morfeo, la psiche frullata in un turbinio di preoccupazioni. La vibrazione del cellulare, però, mi tenne sveglio per un momento in più.
Ebbi un sussulto, come se il destino mi avesse letto nel pensiero: era un messaggio whatsapp di un numero che non avevo in rubrica, ma la foto del profilo e il contenuto del testo fugò ogni dubbio sul mittente.
"Ciao Remo, sono Lucrezia. Forse non dovrei scriverti, ma ecco. Volevo chiederti scusa, per tutto. Grazie per aver accettato l'invito di Francesco. Includerti nelle sue cose è un modo per chiederti perdono. Sono contenta di averti rivisto e di aver visto che stai bene. Notte."
Morfeo mi abbandonò defintivamente.
E quella notte la passai in bianco.
Avanti con il prossimo paragrafo...
La tua vendetta, intuisco che sarà molto piacevole! 😊😜
 

chega

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Giacomo era gay.
Me lo aveva detto un giorno d'estate, mentre eravamo al laghetto a pescare. Mi guardò con quegli occhi chiari, il viso angelico contornato da boccoli d'oro e la speranza, nell'occhiata che mi rifilò, che io non dicessi niente a nessuno.
Gli sorrisi senza aprir bocca, era il mio modo per rassicurarlo del mio silenzio. In cuor mio io l'avevo sempre saputo.
Le voci però iniziarono a circolare per via del suo comportamento. Era un ragazzo molto bello, molto ambito, solo che lui rifiutava costantemente ogni approccio con il gentil sesso, motivo per cui cominciarono a prenderlo in giro con frasi come "Frocio di Merda, Recchione, orecchie di gomma". Ogni volta era come se morisse dentro, lo vedevo dai suoi occhi. Ed ogni volta, in lui, cresceva la voglia di tenere nascosto il suo vero essere.
Gli anni delle superiori furono un vero inferno per entrambi.
L'estate del quinto, invece, assaporavo l'aria di libertà. Non che io avessi chissà quali grandi piani, ma almeno mi sarei scrollato di dosso quei parassiti dei miei compagni. E prprio come parassiti, che vivono alle spalle di qualcun altro, così facevano loro, basando le loro felicità sulle sventure e sul dolore altrui.
I miei sogni, però, s'infransero come un castello di sabbia in un tornado. I miei decisero di trasferirsi e io dovetti partire con loro.
Pioveva quel giorno, ma faceva molto caldo. Con la mia bici sfrecciai a casa di Giacomo e bussai spasmodicamente alla sua porta.
Mi aprì stralunato, non capiva il perché di tutta quella fretta.
"Parto." gli dissi senza girarci intorno, il cuore mi scoppiava nel petto.
Mi guardò per attimi infiniti.
"E dove te ne vai?" mi chiese ad una certa.
"Al nord. I miei vogliono così."
"Tornerai?" domandò alla fine.
Non sapevo cosa dirgli. Rimasi in silenzio, scrollai le spalle, lasciai che il rumore dell'acqua ci avvolgesse.
Comparve un sorriso sul suo volto, non uno di quelli felici, nemmeno uno di quelli che servono per mascherare tristezza. Un sorriso vuoto, come di chi sta perdendo qualcosa. Mi si avvicinò con una lentezza disarmante e mi stampò un bacio sulle labbra che durò per attimi interminabili.
Alla fine mi abbracciò.
E non ringraziai mai abbastanza la pioggia di coprire le mie calde lacrime.



La vita scorre come i granelli di sabbia nella clessidra. Un secondo, un giorno, un anno. E già sei cresciuto senza accorgertene.
Avevo avuto milioni di occasioni per ricontattare Giacomo, ma non sentirlo era una di quelle cose talmente tanto reiterate nel tempo che alla fine mi ci abituai. In più, dentro di me, cresceva l'idea che mi considerasse uno stronzo per tutti quegli anni di silenzio. All'epoca non avevo nemmeno un telefono cellulare. Con la tecnologia avrei potuto creare un qualsiasi account social per cercarlo, ma non lo feci. Non solo perché aborro l'idea di spiattellare la mia vita su una piattaforma, quanto più perché, davvero, mi vergognavo di non avergli scritto prima. Alla fine rimandai all'infinito, senza più trovare il coraggio di farlo.
Quella sera, però, mi sembrò diverso, principalmente perché ero tornato e potevo vederlo di persona. Magari fargli una sorpresa e ridere come facevamo al lago, da ragazzini, a cercare invano di catturare qualche pesce.
La sua assenza a cena non mi stupiva più di tanto, era più la mia presenza ad essere sorprendente.
Fu Lucrezia a parlare.
"Giacomo non c'è, è partito poco dopo di te e non è più tornato. Lo abbiamo contattato comunque per la cena, ma ci ha detto di no, chiedendoci di non essere aggiunto al gruppo." mi spiegò in tutta tranquillità. Nelle sue parole constatai che non c'era più quella voglia di umiliarlo come un tempo.
"Avete il suo numero?" chiesi senza fronzoli. Non sapevo perché, ma ora morivo dalla voglia di sentirlo. Il fatto che fosse partito mi mandava fuori di testa: in un secondo ero passato dal poterlo rivedere, al doverlo rincorrere di nuovo. Stavolta, mi promisi, non l'avrei fatto.
Lucrezia annuì e mi girò il numero.
"Senti..." fece Francesco bloccandomi il braccio. Sorrise sornione. "Ti va se questi giorni ci organizziamo per una partita di calcetto?"
Mi venne da ridere. Davvero me lo stava chiedendo? Mi guardai intorno, fissai i volti di tutti, cercando una minima reazione che mi consentisse di dire "ok, è tutto uno scherzo." Come riusciva a farlo? Davvero non si rendeva conto del male che mi aveva inferto? Mi voltai verso sua moglie, mi lanciò uno sguardo che dapprima faticai a comprendere. Lei annuì con la testa, allargando gli occhi. Ed io feci lo stesso in direzione di Francesco.
"Ok, va bene." Dissi lapidario.
"Splendido!" esclamò. Era davvero contento del fatto che risposi affermativamente al suo invito. "Allora organizzo e ti faccio sapere."
La serata proseguì, chiacchierammo del più e del meno, fino a quando non me ne tornai a casa e crollai esausto sul letto.
Avevo una tempesta di pensieri in testa. Ora morivo dalla voglia di risentire Giacomo, di scusarmi per la mia assenza, di organizzare un incontro, qualcosa che potesse riavvicinarci. Pensavo a Francesco, all'idea di doverlo rivedere, all'idea di dovermi spogliare di nuovo di fronte a lui. Avrei potuto tornarmene a casa a farmi la doccia, ma la psicologa aveva combattuto molto sul fatto che avrei dovuto riaffrontare le mie paure per superarle definitivamente. Spogliarmi negli spogliatoi della palestra, davanti a sconosciuti, era stato il primo passo. Quello, probabilmente, doveva essere l'ultimo. Una parte di me era sicura del mio successo: ora ero più sicuro di me, avevo avuto numerose storie, in molti mi avevano visto nudo fregandosene completamente, perché stavolta doveva essere diverso?
Perché loro sono i tuoi aguzzini, mi ripeteva l'altra parte di me. La maledii per la sua schiettezza e cambiai repentinamente il soggetto del mio frenetico pensare.
Ed ecco che mi tornò in mente lo sguardo di Lucrezia, non capivo cosa diavolo volesse dire. Che significava quell'occhiata? Che intenzioni aveva?
Alla fine stavo quasi per abbandonarmi a Morfeo, la psiche frullata in un turbinio di preoccupazioni. La vibrazione del cellulare, però, mi tenne sveglio per un momento in più.
Ebbi un sussulto, come se il destino mi avesse letto nel pensiero: era un messaggio whatsapp di un numero che non avevo in rubrica, ma la foto del profilo e il contenuto del testo fugò ogni dubbio sul mittente.
"Ciao Remo, sono Lucrezia. Forse non dovrei scriverti, ma ecco. Volevo chiederti scusa, per tutto. Grazie per aver accettato l'invito di Francesco. Includerti nelle sue cose è un modo per chiederti perdono. Sono contenta di averti rivisto e di aver visto che stai bene. Notte."
Morfeo mi abbandonò defintivamente.
E quella notte la passai in bianco.
Ben scritto, 👍
 

sormarco

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Giacomo era gay.
Me lo aveva detto un giorno d'estate, mentre eravamo al laghetto a pescare. Mi guardò con quegli occhi chiari, il viso angelico contornato da boccoli d'oro e la speranza, nell'occhiata che mi rifilò, che io non dicessi niente a nessuno.
Gli sorrisi senza aprir bocca, era il mio modo per rassicurarlo del mio silenzio. In cuor mio io l'avevo sempre saputo.
Le voci però iniziarono a circolare per via del suo comportamento. Era un ragazzo molto bello, molto ambito, solo che lui rifiutava costantemente ogni approccio con il gentil sesso, motivo per cui cominciarono a prenderlo in giro con frasi come "Frocio di Merda, Recchione, orecchie di gomma". Ogni volta era come se morisse dentro, lo vedevo dai suoi occhi. Ed ogni volta, in lui, cresceva la voglia di tenere nascosto il suo vero essere.
Gli anni delle superiori furono un vero inferno per entrambi.
L'estate del quinto, invece, assaporavo l'aria di libertà. Non che io avessi chissà quali grandi piani, ma almeno mi sarei scrollato di dosso quei parassiti dei miei compagni. E prprio come parassiti, che vivono alle spalle di qualcun altro, così facevano loro, basando le loro felicità sulle sventure e sul dolore altrui.
I miei sogni, però, s'infransero come un castello di sabbia in un tornado. I miei decisero di trasferirsi e io dovetti partire con loro.
Pioveva quel giorno, ma faceva molto caldo. Con la mia bici sfrecciai a casa di Giacomo e bussai spasmodicamente alla sua porta.
Mi aprì stralunato, non capiva il perché di tutta quella fretta.
"Parto." gli dissi senza girarci intorno, il cuore mi scoppiava nel petto.
Mi guardò per attimi infiniti.
"E dove te ne vai?" mi chiese ad una certa.
"Al nord. I miei vogliono così."
"Tornerai?" domandò alla fine.
Non sapevo cosa dirgli. Rimasi in silenzio, scrollai le spalle, lasciai che il rumore dell'acqua ci avvolgesse.
Comparve un sorriso sul suo volto, non uno di quelli felici, nemmeno uno di quelli che servono per mascherare tristezza. Un sorriso vuoto, come di chi sta perdendo qualcosa. Mi si avvicinò con una lentezza disarmante e mi stampò un bacio sulle labbra che durò per attimi interminabili.
Alla fine mi abbracciò.
E non ringraziai mai abbastanza la pioggia di coprire le mie calde lacrime.



La vita scorre come i granelli di sabbia nella clessidra. Un secondo, un giorno, un anno. E già sei cresciuto senza accorgertene.
Avevo avuto milioni di occasioni per ricontattare Giacomo, ma non sentirlo era una di quelle cose talmente tanto reiterate nel tempo che alla fine mi ci abituai. In più, dentro di me, cresceva l'idea che mi considerasse uno stronzo per tutti quegli anni di silenzio. All'epoca non avevo nemmeno un telefono cellulare. Con la tecnologia avrei potuto creare un qualsiasi account social per cercarlo, ma non lo feci. Non solo perché aborro l'idea di spiattellare la mia vita su una piattaforma, quanto più perché, davvero, mi vergognavo di non avergli scritto prima. Alla fine rimandai all'infinito, senza più trovare il coraggio di farlo.
Quella sera, però, mi sembrò diverso, principalmente perché ero tornato e potevo vederlo di persona. Magari fargli una sorpresa e ridere come facevamo al lago, da ragazzini, a cercare invano di catturare qualche pesce.
La sua assenza a cena non mi stupiva più di tanto, era più la mia presenza ad essere sorprendente.
Fu Lucrezia a parlare.
"Giacomo non c'è, è partito poco dopo di te e non è più tornato. Lo abbiamo contattato comunque per la cena, ma ci ha detto di no, chiedendoci di non essere aggiunto al gruppo." mi spiegò in tutta tranquillità. Nelle sue parole constatai che non c'era più quella voglia di umiliarlo come un tempo.
"Avete il suo numero?" chiesi senza fronzoli. Non sapevo perché, ma ora morivo dalla voglia di sentirlo. Il fatto che fosse partito mi mandava fuori di testa: in un secondo ero passato dal poterlo rivedere, al doverlo rincorrere di nuovo. Stavolta, mi promisi, non l'avrei fatto.
Lucrezia annuì e mi girò il numero.
"Senti..." fece Francesco bloccandomi il braccio. Sorrise sornione. "Ti va se questi giorni ci organizziamo per una partita di calcetto?"
Mi venne da ridere. Davvero me lo stava chiedendo? Mi guardai intorno, fissai i volti di tutti, cercando una minima reazione che mi consentisse di dire "ok, è tutto uno scherzo." Come riusciva a farlo? Davvero non si rendeva conto del male che mi aveva inferto? Mi voltai verso sua moglie, mi lanciò uno sguardo che dapprima faticai a comprendere. Lei annuì con la testa, allargando gli occhi. Ed io feci lo stesso in direzione di Francesco.
"Ok, va bene." Dissi lapidario.
"Splendido!" esclamò. Era davvero contento del fatto che risposi affermativamente al suo invito. "Allora organizzo e ti faccio sapere."
La serata proseguì, chiacchierammo del più e del meno, fino a quando non me ne tornai a casa e crollai esausto sul letto.
Avevo una tempesta di pensieri in testa. Ora morivo dalla voglia di risentire Giacomo, di scusarmi per la mia assenza, di organizzare un incontro, qualcosa che potesse riavvicinarci. Pensavo a Francesco, all'idea di doverlo rivedere, all'idea di dovermi spogliare di nuovo di fronte a lui. Avrei potuto tornarmene a casa a farmi la doccia, ma la psicologa aveva combattuto molto sul fatto che avrei dovuto riaffrontare le mie paure per superarle definitivamente. Spogliarmi negli spogliatoi della palestra, davanti a sconosciuti, era stato il primo passo. Quello, probabilmente, doveva essere l'ultimo. Una parte di me era sicura del mio successo: ora ero più sicuro di me, avevo avuto numerose storie, in molti mi avevano visto nudo fregandosene completamente, perché stavolta doveva essere diverso?
Perché loro sono i tuoi aguzzini, mi ripeteva l'altra parte di me. La maledii per la sua schiettezza e cambiai repentinamente il soggetto del mio frenetico pensare.
Ed ecco che mi tornò in mente lo sguardo di Lucrezia, non capivo cosa diavolo volesse dire. Che significava quell'occhiata? Che intenzioni aveva?
Alla fine stavo quasi per abbandonarmi a Morfeo, la psiche frullata in un turbinio di preoccupazioni. La vibrazione del cellulare, però, mi tenne sveglio per un momento in più.
Ebbi un sussulto, come se il destino mi avesse letto nel pensiero: era un messaggio whatsapp di un numero che non avevo in rubrica, ma la foto del profilo e il contenuto del testo fugò ogni dubbio sul mittente.
"Ciao Remo, sono Lucrezia. Forse non dovrei scriverti, ma ecco. Volevo chiederti scusa, per tutto. Grazie per aver accettato l'invito di Francesco. Includerti nelle sue cose è un modo per chiederti perdono. Sono contenta di averti rivisto e di aver visto che stai bene. Notte."
Morfeo mi abbandonò defintivamente.
E quella notte la passai in bianco.
Lucrezia vorrà vedere con gli occhi della sua faccia ciò che il marito divenuto cuck le ha raccontato.
Spero di non aver spoilerato nulla
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Avanti con il prossimo paragrafo...
La tua vendetta, intuisco che sarà molto piacevole! 😊😜
Io dico lunga e dura 😜😜😜
 
OP
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rancu

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L'indomani non persi tempo e scrissi a Giacomo. Fu praticamente la prima cosa che feci appena alzato.
In realtà impiegai un'infinità nel trovare le parole giuste. Per un attimo mi trasformai in Penelope: più scrivevo, più cancellavo, più riscrivevo, più eliminavo.
Cercai di fare mente locale e alla fine scelsi un messaggio semplice, diretto, senza troppi fronzoli.
"Hey Già, sono Remo. Avrei dovuto scriverti anni fa e mi dispiace di non averlo fatto. Sappi comunque che non ti ho mai dimenticato. Come te la passi? Dici che riusciremo ad incontrarci, un giorno?"
Non aveva una foto profilo su whatsapp e la cosa non mi stupì molto. Anzi, la cosa mi fece sorridere: non ne ho una nemmeno io, evidentemente non era cambiato molto in tutto quel tempo. Sempre umile, riservato, come lo ricordavo. Speravo solo non avesse incontrato i soliti problemi dopo essersi trasferito. Volevo sapere di più, ero affamato di conoscenza nei suoi riguardi. Silenziosamente, per l'ennesima volta, mi maledii per non averlo contattato prima.
Tuttavia, sebbene io fossi convinto nello scrivergli, tergiversai nel premere invio. Avevo ancora quella sensazione in corpo, quella convinzione che non volesse più sentirmi. Mi dissi però che il dubbio logora più delle certezze, motivo per cui alla fine mi convinsi ed inviai.
Lasciai il cellulare sul tavolo, mi misi a fare tutt'altro per non pensarci. Non feci in tempo nemmeno a riordinare i piatti della colazione che il cellulare vibrò.
Mi fiondai ad afferrarlo, nemmeno fosse una mia ipotetica ragazza.
Con mia grande delusione vidi che il messaggio proveniva dal gruppo della cena del giorno precedente. Quel coglione di Walter aveva postato una nostra foto e subito sotto si erano scatenati numerosi commenti. Di tutti, però, ce ne fu uno che catturò la mia attenzione.
Rebecca non era venuta alla cena, aveva avuto un imprevisto con la madre che in quel periodo non stava molto bene.
Scrisse: "Chi diavolo è quel capellone in foto?"
Non risposi. Un attimo dopo comparve un sorriso mellifluo sul mio volto.
Fu proprio Francesco a rispondere. "E' Remo! E' cambiato!"
"Ma che cazzo stai dicendo?" commentò di nuovo Rebecca.
"Sì, proprio lui!" fece qualcun altro.
Sarei rimasto a leggere all'infinito se un altro messaggio non avesse catturato la mia attenzione.
Era quello che stavo aspettando.
L'anteprima non lasciava alcun dubbio: Giacomo mi aveva risposto.
Il cuore saltò un battito.
Aprii la sua chat spasmodicamente, lasciai stare tutte le altre cazzate.
Lessi avido e sorrisi di nuovo.
"Remo! Diamine quanto tempo! Non preoccuparti, sapevo che non avresti più scritto, ti conosco! Ma non ce l'ho mica con te, la vita è fatta così. Ci si perde di vista, ma portiamo con noi i nostri ricordi. Nemmeno io ti ho mai dimenticato ed anzi ti penso spesso. Mi fa molto piacere risentirti! Sto bene, ora sono a XXXXXX, vivo qui da tempo. e tu? Tutto bene?"
Non era poi così lontano da dove mi ero trasferito. In quel momento ero nel mio paese d'origine, ma prima o poi sarei ritornato su, al Nord.
"Sì, sto bene. Sono stato alla cena di classe, volevo vedere le loro facce, volevo vedere se avevano le palle di sfottermi ancora. Sono cambiato, lo sai? Comunque quando torno su ci organizziamo, non siamo poi così distanti. Ma posso chiamarti?"
"No, no, ora non posso parlare. E vediamo per incontrarsi, ho sempre le giornate piene. Non è così facile. I cambiamenti li capisco, credimi. Fanno parte della nostra vita, in fondo, no?"
Annuii, rendendomi conto che non poteva di certo vedermi. "Perché anche tu sei cambiato?" chiesi incuriosito.
"Decisamente." mi rispose senza aggiungere altro.
"Sono sicuro riusciremo ad incontrarci. anche io sono impegnato, ma cercherò di disimpegnarmi se significa rivedere il mio vecchio amico."
Visualizzò ed iniziò a scrivere. Poi si fermava, ricominciava e si fermava di nuovo. La stessa cosa che feci io all'inizio.
Dopo attimi interminabili, in cui credevo avesse scritto un papiro, comparve una risposta lapidaria.
"Vedremo." mi disse.
E per quel giorno non lo sentii più.


Nonostante avessi dormito poco, quella notte, avevo una gran voglia di andare a correre. Dovevo sfogare la tensione, forse, oppure dovevo scaricare l'adrenalina per tutto quello che avevo vissuto nelle ultime ore. Lascio sempre il telefono a casa quando decido di andarmi ad allenare e per quel giorno non feci eccezioni.
Rientrai esausto dopo un'ora e mezza. Ero paonazzo, stravolto, ma appagato. Il tempo di lavarmi e presi di nuovo il cellulare.
Un messagio. Di nuovo un numero che non avevo in rubrica.
"Remo? Davvero? Non ci credo. Non è possibile che tu sia quello della foto."
Peccato fossi da solo, perché la sorpresa dipinta sul mio volto in quel momento doveva essere qualcosa di incredibile.
Mi aveva scritto Rebecca. Che cazzo voleva ora?
"Beh si, sono io."
"Come diavolo hai fatto a diventare così? Svelami il tuo segreto!"
"Ho cercato di dimenticarvi. Tutti, te compresa." Scrissi senza giri di parole.
Visualizzò.
E non ebbe il coraggio di rispondere.
 

sormarco

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L'indomani non persi tempo e scrissi a Giacomo. Fu praticamente la prima cosa che feci appena alzato.
In realtà impiegai un'infinità nel trovare le parole giuste. Per un attimo mi trasformai in Penelope: più scrivevo, più cancellavo, più riscrivevo, più eliminavo.
Cercai di fare mente locale e alla fine scelsi un messaggio semplice, diretto, senza troppi fronzoli.
"Hey Già, sono Remo. Avrei dovuto scriverti anni fa e mi dispiace di non averlo fatto. Sappi comunque che non ti ho mai dimenticato. Come te la passi? Dici che riusciremo ad incontrarci, un giorno?"
Non aveva una foto profilo su whatsapp e la cosa non mi stupì molto. Anzi, la cosa mi fece sorridere: non ne ho una nemmeno io, evidentemente non era cambiato molto in tutto quel tempo. Sempre umile, riservato, come lo ricordavo. Speravo solo non avesse incontrato i soliti problemi dopo essersi trasferito. Volevo sapere di più, ero affamato di conoscenza nei suoi riguardi. Silenziosamente, per l'ennesima volta, mi maledii per non averlo contattato prima.
Tuttavia, sebbene io fossi convinto nello scrivergli, tergiversai nel premere invio. Avevo ancora quella sensazione in corpo, quella convinzione che non volesse più sentirmi. Mi dissi però che il dubbio logora più delle certezze, motivo per cui alla fine mi convinsi ed inviai.
Lasciai il cellulare sul tavolo, mi misi a fare tutt'altro per non pensarci. Non feci in tempo nemmeno a riordinare i piatti della colazione che il cellulare vibrò.
Mi fiondai ad afferrarlo, nemmeno fosse una mia ipotetica ragazza.
Con mia grande delusione vidi che il messaggio proveniva dal gruppo della cena del giorno precedente. Quel coglione di Walter aveva postato una nostra foto e subito sotto si erano scatenati numerosi commenti. Di tutti, però, ce ne fu uno che catturò la mia attenzione.
Rebecca non era venuta alla cena, aveva avuto un imprevisto con la madre che in quel periodo non stava molto bene.
Scrisse: "Chi diavolo è quel capellone in foto?"
Non risposi. Un attimo dopo comparve un sorriso mellifluo sul mio volto.
Fu proprio Francesco a rispondere. "E' Remo! E' cambiato!"
"Ma che cazzo stai dicendo?" commentò di nuovo Rebecca.
"Sì, proprio lui!" fece qualcun altro.
Sarei rimasto a leggere all'infinito se un altro messaggio non avesse catturato la mia attenzione.
Era quello che stavo aspettando.
L'anteprima non lasciava alcun dubbio: Giacomo mi aveva risposto.
Il cuore saltò un battito.
Aprii la sua chat spasmodicamente, lasciai stare tutte le altre cazzate.
Lessi avido e sorrisi di nuovo.
"Remo! Diamine quanto tempo! Non preoccuparti, sapevo che non avresti più scritto, ti conosco! Ma non ce l'ho mica con te, la vita è fatta così. Ci si perde di vista, ma portiamo con noi i nostri ricordi. Nemmeno io ti ho mai dimenticato ed anzi ti penso spesso. Mi fa molto piacere risentirti! Sto bene, ora sono a XXXXXX, vivo qui da tempo. e tu? Tutto bene?"
Non era poi così lontano da dove mi ero trasferito. In quel momento ero nel mio paese d'origine, ma prima o poi sarei ritornato su, al Nord.
"Sì, sto bene. Sono stato alla cena di classe, volevo vedere le loro facce, volevo vedere se avevano le palle di sfottermi ancora. Sono cambiato, lo sai? Comunque quando torno su ci organizziamo, non siamo poi così distanti. Ma posso chiamarti?"
"No, no, ora non posso parlare. E vediamo per incontrarsi, ho sempre le giornate piene. Non è così facile. I cambiamenti li capisco, credimi. Fanno parte della nostra vita, in fondo, no?"
Annuii, rendendomi conto che non poteva di certo vedermi. "Perché anche tu sei cambiato?" chiesi incuriosito.
"Decisamente." mi rispose senza aggiungere altro.
"Sono sicuro riusciremo ad incontrarci. anche io sono impegnato, ma cercherò di disimpegnarmi se significa rivedere il mio vecchio amico."
Visualizzò ed iniziò a scrivere. Poi si fermava, ricominciava e si fermava di nuovo. La stessa cosa che feci io all'inizio.
Dopo attimi interminabili, in cui credevo avesse scritto un papiro, comparve una risposta lapidaria.
"Vedremo." mi disse.
E per quel giorno non lo sentii più.


Nonostante avessi dormito poco, quella notte, avevo una gran voglia di andare a correre. Dovevo sfogare la tensione, forse, oppure dovevo scaricare l'adrenalina per tutto quello che avevo vissuto nelle ultime ore. Lascio sempre il telefono a casa quando decido di andarmi ad allenare e per quel giorno non feci eccezioni.
Rientrai esausto dopo un'ora e mezza. Ero paonazzo, stravolto, ma appagato. Il tempo di lavarmi e presi di nuovo il cellulare.
Un messagio. Di nuovo un numero che non avevo in rubrica.
"Remo? Davvero? Non ci credo. Non è possibile che tu sia quello della foto."
Peccato fossi da solo, perché la sorpresa dipinta sul mio volto in quel momento doveva essere qualcosa di incredibile.
Mi aveva scritto Rebecca. Che cazzo voleva ora?
"Beh si, sono io."
"Come diavolo hai fatto a diventare così? Svelami il tuo segreto!"
"Ho cercato di dimenticarvi. Tutti, te compresa." Scrissi senza giri di parole.
Visualizzò.
E non ebbe il coraggio di rispondere.
Fatto bene !!! Andassero affanculo tutti, per il momento.
 

Shamoan

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Mi piace questa storia, come la racconti, come descrivi le tue sensazioni e soprattutto come le trasmetti ai tuoi lettori.
Per chi ha vissuto esperienze simili alla tua, è un modo come un altro per riscattarsi del male subìto.
Attendo di leggere il seguito ed intanto ti faccio i miei complimenti!
 
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rancu

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Il giorno della partita organizzata da Francesco arrivò prima del previsto. Iniziai ad essere nervoso già dalla mattina, ed era tutto un insieme di cose a non farmi stare tranquillo. Scrissi a Giacomo per cercare conforto, ma non rispose e la cosa mi infastidì. Mi dissi che non dovevo fare lo stronzo, con lui, che già l'avevo fatto abbastanza: non potevo pretendere che dopo anni il nostro rapporto potesse tornare tutto rose e fiori nel giro di qualche giorno. Eppure era quello che volevo: per quanto fosse difficile ammetterlo a me stesso, avevo perso tempo e la colpa era soltanto mia. Ora volevo tutto, la sua amicizia, la sua presenza, forse anche il suo perdono. Lui, però, aveva la sua vita, era riuscito ad andare avanti, mentre io ero in parte ancorato alle mie solite paure.
Feci un profondo respiro e mi maledii silenziosamente, scacciando tutti i pensieri che volevano farmi ritirare dalla partita.
Non succederà, mi dissi. Andrò a giocare e li ammazzerò tutti.
Scossi la testa, quello era fin troppo. Ormai stavo parlando da solo, erano forse i primi sintomi della follia?
Ok, non li ammazzerò, ripeté il mio io interiore. Andrò a giocare e almeno vedrò di vincere.

Raggiunsi il campo per ultimo, gli altri erano già tutti schierati. Avevo già giocato lì, da ragazzino e me la cavavo piuttosto bene nonostante il fisico carente. Una discreta tecnica, compensavo inoltre la scarsa forma fisica con una grinta fuori dal comune. Giocai fino a quando non iniziarono i problemi, poi smisi per paura di venir bullizzato anche nell'ambito sportivo, come succedeva già a scuola. Inoltre, la sola idea di dovermi spogliare di fronte una squadra intera mi mandava fuori di testa. In seguito, dopo aver sistemato le cose e riassestato il fisico ero tornato a giocare su al Nord, con persone nuove, sconosciute. Avevo dimostrato più volte a me stesso che se avessi creduto in me forse ce l'avrei fatta, ma ormai era troppo tardi e mi accontentavo così.

Le scalette che scendevano sul terreno di gioco erano praticamente attaccate alle gradinate. Non c'era anima viva praticamente, tranne tre persone che riconobbi subito. Erano tre donne, ed io le conoscevo tutte e tre.
Lucrezia, Rebecca e Veronica.
Mi videro da lontano e mi salutarono con un sorriso, io ricambiai con un gesto del capo, poi affrettai il passo. Più scendevo le scale, più sentivo i loro occhi addosso: per un attimo mi voltai a guardarle prima di varcare il cancello e mi accorsi che tutte e tre mi stavano fissando mentre parlottavano tra di loro. Sospirai scuotendo la testa, prima di venir braccato da Francesco.
"Hey, ce l'hai fatta! Sei in ritardo!"
"Sì, beh, ho avuto da fare. Giochiamo dai." Ero già pronto, misi il borsone da una parte e scesi subito in campo.
La partita non fu così entusiasmante. Eravamo tutti coetanei, ma nessuno aveva mantenuto la forma fisica delle superiori. Io, in quel momento, ero una spanna sopra a livello atletico, motivo per cui la situazione era quasi imbarazzante: in pratica potevo essere in ogni angolo del campo, se solo avessi voluto. Più i minuti passavano, più mi rendevo conto di quanto stessi godendo nel farli sentire in difetto, di quanto mi piaceva farli sentire...inferiori. Ma così facendo sarei stato come loro, mi dissi...Eppure non li stavo mica insultando né trattando male come loro avevano fatto con me, li stavo semplicemente umiliando senza dire una parola, soltanto perché in quel momento ero nettamente più forte di loro. Quella, per me, aveva il sapore di una bella rivincita. Ogni volta che gonfiavo la rete, pure il mio petto si gonfiava, sì, ma d'orgoglio. Avrei preferito giocare contro Francesco, ma quella vecchia volpe aveva organizzato tutto, scegliendomi dalla sua parte. Cadeva sempre in piedi, lui: una mia vittoria era anche la sua vittoria.
Tuttavia, più brillavo in campo, più sentivo gli occhi di quelle tre arpie addosso. Non so dire perché, ma i loro sguardi mi infastidivano a dismisura. Non avevo bisogno della loro compassione, né di un loro ipotetico interessamento, per quanto fossero appetibili come sempre erano state. Il loro modo insistente di studiarmi mi dava sui nervi. E mi dava sui nervi soprattutto non capirne il motivo: perché mi guardavano? Perché ero il migliore in campo? Perché ero diventato interessante? Perché il mio cambiamento aveva del miracoloso, ai loro occhi? O soltanto perché volevano carpire i miei segreti, trovare l'elisir della lunga vita come cura anti-age?
Mi concentrai sulla partita cercando di scindere le due cose. Ora era il turno di Walter, nella porta avversaria, ed io avevo la palla tra i piedi per calciargli addosso tutti i miei anni di sofferenza. Tirai con tutta la forza che avevo in corpo e non mi preoccupai nemmeno di indirizzarla in un angolo: volevo solo prendere la porta, dritto per dritto, sperando quasi che lui non si spostasse.
Avanti, dissi a me stesso. Rimani lì, dimostrami quanto sei uomo.
Ma Walter, un uomo, non lo era mai stato: si scansò all'ultimo, quel poveraccio, coprendosi il volto con la mano come farebbe un bambino che sta per ricevere un ceffone da sua madre.
La palla s'insaccò in rete, ma io sorrisi più per la scena che per il gol.
Ed era un sorriso di chi, piano piano, stava rimettendo a posto tutti i pezzi del puzzle.
"Coglione." bofonchiai tra me e me, senza farmi sentire da nessuno.
La partita terminò così, con un mio ennesimo gol.
Quel gol e tutti gli altri sancirono la mia vittoria, la mia prima contro di loro.
Dovetti ammetterlo, era una strana sensazione...ma mi piaceva da morire.
 

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