8.8
Erano le due di notte quando rientrammo a casa.
Lucrezia mi convinse ad andare al pronto soccorso per medicare la ferita al braccio, alla quale applicarono otto punti, e per steccare le dita rotte, fasciatura che durò meno di un gatto in tangenziale, con chiaro disappunto della donna che mi accompagnava.
Non dissi alcunché sull'aggressione, spiegai che ero caduto dalle scale e che la ferita al braccio ce l'avevo da qualche giorno e si era riaperta con l'incidente. Era chiaro fosse una bugia, ma dalle mie parti c'è un tacito accordo tra pazienti, medici ed infermieri: come le vie del mio paese avevano visto altri pestaggi, così le mura di quell'ospedale. E nessuno, di nuovo, disse nulla.
Per tutto quel tempo Lucrezia non parlò molto, ma sulla via del ritorno mi disse che non se la sentiva di rientrare a casa sua. Mi aveva prestato soccorso alla meglio, ma la macchina del marito era ancora sul vialetto e sapeva sarebbe tornato, prima o poi. Glielo leggevo negli occhi, aveva voglia di fuggire in capo al mondo, ma fili invisibili la trattenevano in quel luogo dimenticato da Dio.
Rientrati nella mia abitazione fui investito in un colpo solo da un'indicibile stanchezza, come se un intero battaglione mi fosse passato sopra. Il dolore iniziava a farsi sentire in ogni parte del corpo e non mi capacitavo di come io ne fossi uscito tutto sommato illeso. Bramavo il mio divano, che ora mi sembrava una sorta di culla in cui poter ritornare bambino: non era mai stato così comodo come quella sera.
Lucrezia, a casa sua, si era cambiata al volo, tanto per non andarsene in giro con il reggiseno in bella vista. Quell'immagine era ancora stampata nella mia mente, modellata nel marmo dai miei ricordi.
Si avvicinò, reclamando un piccolo spazio sul divano. Il suo volto era una maschera di emozioni: era preoccupata per me, si vedeva chiaramente. In più, nello sguardo, brillava la fiamma della rabbia: era probabile, mi dissi, fosse arrabbiata con se stessa per avermi coinvolto in quella situazione. Intrecciava le dita tra di loro con vistoso nervosismo, sembrava sull'orlo di voler dire qualcosa, ma rimaneva in silenzio, fissandosi i polpastrelli.
-Che hai?- dissi io rompendo quell'innaturale quiete.
-Come sarebbe a dire che ho?- alzò lo sguardo, figlio di occhi smeraldini, e mi squadrò contrariata. -Ti hanno picchiato per colpa mia. Io non credevo, non...-
La interruppi. -Ohhh ma che fai, non scoppierai a piangere ora.-
-Piango quando mi pare.- una lacrima solitaria le rigava la guancia destra. Lasciava una lucida scia sul suo viso, donandole un'umanità devastante.
-Non serve. Ho deciso io di venire no? avrei potuto dirti di no, ed invece non l'ho fatto. Quindi smettila.-
Tirò su con il naso riabbassando la faccia. Aveva le gambe serrate, la schiena dritta, il volto fisso sulle sue mani che si intrecciavano sopra le cosce.
-Rè...- disse senza guardarmi. -Io non lo voglio più vedere.-
Non risposi, non sapevo cosa dirle: non potevo di certo andare la fuori a cercarlo e ammazzarlo. Decisi di starmene zitto e vedere dove voleva andare a parare.
-Mi ha rovinato la vita. Non voglio più avere a che fare con lui.- singhiozzò. Il suo corpo venne sconquassato da un tremolio, un istante di debolezza che riuscì a controllare.
-Ti rendi conto di essere sua moglie, vero?-
-Sì che me ne rendo conto. E ti prego di non ricordarmelo. Già soffro abbastanza.-
-E che pensi di fare, scusa?- domandai incuriosito.
Scosse la testa, i capelli ondeggiarono. -Non lo so. Ma me ne andrò da qui.-
Sospirai senza fiatare. Con estrema riluttanza mi alzai, vincendo ogni singolo dolore. Mi avviai verso il lavello, presi un bicchiere e lo riempii d'acqua.
-Bevi.- le dissi. -E cerca di tranquillizzarti.-
Lei afferrò la mia offerta, la sua mano era tremolante. Ne bevve un sorso, imprimendo parte di sé sulla lucida superficie di vetro. In trasparenza, riuscivo a vedere i solchi e le righe delle sue labbra impresse sul bicchiere, l'immagine in negativo di un pezzo della sua carne, un'altra scultura che avrei conservato nei bui meandri della mia testa.
-Grazie.- sussurrò lei tornandosene sulla difensiva.
-Ascolta.- feci io ad una certa appoggiando il bicchiere sul tavolo. Nel farlo incrociai la sua mano, mi soffermai per un istante sul suo dorso, per poi ritrarmi lentamente. -Ce ne occuperemo domani, o nei prossimi giorni. Ho bisogno di andare a dormire, di chiudere questa giornata di merda.- rimasi ad osservarla negli occhi. -E credo ne abbia bisogno anche tu.- Non era stato semplice nemmeno per lei: trappola o meno, Francesco l'aveva aggredita di nuovo, non osavo immaginare cosa sarebbe successo se io non fossi stato presente. Il solo pensiero mi mandava in bestia, recriminavo il fatto di non aver sferrato più di un pugno per fargliela pagare.
La tempesta di pensieri che iniziò a vorticarmi nel cervello venne spazzata via dalla donna. Le sue parole furono come un fulmine a ciel sereno, che mi folgorarono completamente.
-Ti prego Rè, io non voglio dormire da sola stanotte.-
Rimasi completamente spiazzato...
...ma avevo già risposto affermativamente prima di rendermene conto.
La aspettavo come un idiota nel letto di mia sorella a contemplare quel dannato soffitto. Che razza di situazione, era quello il prezzo da pagare per una notte con lei? Dovevo essere picchiato e pestato come un sacco da boxe per poter condividere un letto con quella donna. E poi, che razza di pensieri stavo facendo, non sarebbe successo nulla, non avevo intenzione di approfittarmi di lei in quel momento. Più pensavo, più le crepe dell'intonaco sopra di me prendevano la forma di Lucrezia, dei suoi occhi smeraldini, dei suoi capelli corvini. Socchiusi gli occhi, li strinsi forte tra le palpebre, vedevo ancora quei dannati moscerini. Il ronzio all'orecchio non accennava a diminuire, ma non gli diedi peso, non in quel l'istante almeno.
-Che cazzo.- mormorai tra me.
Quando sentii la porta del bagno aprirsi il cuore iniziò a battere all'impazzata. Sentivo i suoi passi sul pavimento, il rumore di quei piedi nudi che avanzavano verso la stanza dove mi trovavo. Contavo mentalmente le mattonelle, lo facevo sempre da ragazzino: erano venti quelle che dividevano il bagno dalla stanza di mia sorella.
Diciannove, diciotto diciassette.
Mi sembrava di vederla già arrivare, le piante si schiacciavano a terra e suonavano di un misticismo unico ad ogni suo passo.
Sedici, quindici, quattordici.
Avevo la netta sensazione di sentire il suo odore, come un lupo che annusa l'aria in cerca della sua preda.
Tredici, dodici, undici.
Percepivo il tamburellare nel mio petto, mi sembrava quasi di vederlo il mio cuore: un fottuto batterista che martellava la grancassa con un doppio pedale.
Dieci, nove, otto.
Era lì, a pochi passi. Si avvicinava, il respiro era affannoso.
Sette, sei, cinque.
Le crepe avevano il suo nome.
Quattro, tre, due, uno.
La porta si aprì.
Il fascio di luce del lampione che proveniva dalla finestra la investì, donandole un'aria quasi divina. Rimasi ad osservare la sua sagoma prendere forma in quel gioco di chiaroscuri, divoravo con gli occhi i suoi lineamenti, la sua pelle illuminata da quel bagliore artificiale. La sentii tirare su con il naso ed intuii al volo il perché della sua lunga permanenza in bagno: probabilmente aveva pianto in silenzio, aveva sfogato tutte le sue preoccupazioni, o parte di esse. Non dissi nulla, rimasi semplicemente in silenzio ad ascoltare il rombo del mio cuore, fino a quando non si voltò verso di me, avvicinandosi alla sua parte del letto.
Si infilò senza dire una parola, aveva la tuta addosso a coprire il suo corpo, ma era scalza, e per me era come se fosse nuda. Non avevo mai percepito tutta quella debolezza in lei, non avevo intuito minimamente quanto avesse sofferto. Nonostante tutto quello che avevamo vissuto, mi sembrava di scoprirla in quel preciso istante: era una creatura che stava chiedendo la mia protezione.
Non avevamo bisogno di dire niente, le parole erano del tutto superflue. Per questo sciolsi le braccia e feci per allargarle verso di lei, che di rimando si abbandonò con una lentezza disarmante verso quell'abbraccio tanto voluto, tanto rimandato. Ci girammo entrambi su un fianco, ed eravamo l'uno di fronte all'altro. Sentivo il suo sguardo tra le tenebre cercarmi, i suoi occhi verdi sgualcire le ombre pur di trovare le mie iridi di cristallo. Ci fissammo per attimi interminabili, sentivamo ognuno il respiro dell'altro.
Non so dire per quanto tempo durò quel gioco di sguardi. Mi resi conto che non c'era malizia, né lussuria, solo il tremendo tentativo di sorreggerci a vicenda. Cercai di sistemarmi per il meglio in modo da non gravare sulla ferita, poi l'abbracciai con più vigore, spingendola verso di me. Lei si aggrappò con le mani e con le unghie al mio corpo, poggiò la testa sul mio petto e mi diede un singolo bacio all'altezza dello sterno, sopra la canotta. Lo sentiva il mio cuore, ne ero certo. Era un motore su di giri, che vorticava all'impazzata.
Io, di rimando, le schioccai un bacio sulla nuca, tra i capelli...e lei si sciolse ancor di più accoccolandosi in quel silenzioso abbraccio.
Quella sera ci spogliammo.
Ci spogliammo del passato, del presente, di qualsiasi sofferenza.
Ci denudammo del ostro malessere e dei nostri dolori, quelli fisici e mentali, fino a quando le nostre anime non si raggomitolarono tra di loro, emulando i nostri corpi.
Alla fine, dopo poco, lei non fiatò più.
Nel giro di qualche minuto sentii la sua presa venire meno, allentarsi, le sue mani scivolare verso il suo volto.
Sorrisi alle tenebre, con la speranza che potessero vedermi. Quelle, invece, cullarono Lucrezia, che si addormentò con un'innocenza quasi unica.
Al contrario, io rimasi a contemplarla.
Fino alle prime luci dell'alba.