Esperienza reale Una famiglia perfetta parte 1

Gando94

"Level 3"
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57
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365
Punti
59
Questa storia prende spunto da fatti accaduti realmente. Sará suddivisa in 10 parti.

Lucia controllò l’orologio: erano soltanto le otto e un quarto, per cui si tranquillizzò e riprese ad imburrare con cura le fette di pane. Portava i capelli sciolti quella mattina, lunghi, scuri, vaporosi, che ricadevano sulle spalle e le incorniciavano il volto. Un paio di grandi occhi castani spiccavano su un volto dai lineamenti delicati: il naso piccolo e le labbra piene. Aveva deciso di indossare una maglia a maniche lunghe color salmone, dalla cui scollatura a V, prorompeva una quinta di seno; una gonna nera e aderente le fasciava il fondo-schiena altrettanto formoso, un cinturone di Gucci metteva in evidenza la vita sottile e aveva optato, ai piedi, per un paio di ballerine nere con il fiocco. Ogni indumento metteva in risalto il suo corpo curvilineo e carnoso.
Alle sue spalle, intanto, Gabriele trangugiava con gusto una tazza di latte e cereali, mentre suo marito Marco se ne stava seduto a capotavola, intento ad osservare fuori dalla finestra con espressione pensierosa. Era incredibile quanto padre e figlio si assomigliassero: a parte la carnagione olivastra - che il bambino aveva evidentemente ereditato da sua madre – padre e figlio avevano gli stessi occhi scuri, un po’ all’ingiù e la stessa corporatura esile ed allungata. Marco portava, appoggiati sul naso, un paio di occhiali da vista non troppo appariscenti e quel giorno indossava un paio di jeans ed una polo bordeaux. Lucia gli lanciò uno sguardo in tralice e si lasciò andare ad un breve sospiro. Da qualche tempo ormai, suo marito mostrava un’aria afflitta di cui lei non riusciva a spiegarsi la ragione. Erano mesi che non facevano più sesso e Lucia più di una volta si era domandata se quella mancanza di intimità tra di loro fosse stata una causa o un effetto. Tutto ciò che sapeva era che le mancava suo marito; le mancava il suo corpo, il tocco delle sue mani grandi e calde, il modo in cui le prendeva i seni e le baciava delicatamente i capezzoli, le mancava sentirlo dentro di lei…

“Ehi, tesoro, tutto bene?” la voce profonda di Marco la strappò fuori dai suoi pensieri, pensieri bollenti che non era riuscita a trattenere, per via dell’astinenza a lungo mantenuta, e che le avevano causato una notevole pulsazione delle parti basse. Lucia si accorse di essere rimasta imbambolata, con una fetta di pane imburrata in una mano ed il coltello nell’altra, per chissà quanto tempo. Scosse la testa e con un sorriso si rivolse a suo marito:

“Sì, sì, certo. Ero solo un po’ sovrappensiero”
I loro sguardi si intrecciarono per qualche secondo, poi Marco tornò a guardare fuori dalla finestra e Lucia, rassegnata, continuò a spalmare di marmellata le fette di pane. Gabriele, dal canto suo, non aveva nemmeno staccato gli occhi dal televisore, troppo intento a guardare un cartone animato.

“Hai finito di mangiare i cereali?”, gli chiese sua madre.
“Non ancora...” rispose Gabriele, senza darle particolare attenzione.
“Beh, allora sbrigati o faremo tardi a scuola. E quante volte ti ho detto che non si guarda la TV mentre si mangia?”
Non ricevendo alcuna risposta, Lucia si avvicinò a suo figlio di soppiatto e prese a fargli il solletico.

“No, lasciami!” Gabriele distolse lo sguardo dalla televisione e tentò di divincolarsi, ridendo a crepapelle.
“Non ci penso nemmeno, piccolo furfante…” Lucia si unì alla risata, continuando imperterrita a punzecchiarlo. “Mi fermerò solo quando avrò ricevuto un bel bacio!” aggiunse.
“Ma io ho 10 anni, sono grande per queste cose...”
“...e allora non hai scampo!” Lucia, imitando il ruggito di un animale feroce, si abbatté su suo figlio, intrappolandolo nel suo abbraccio.
“Papà, aiutami!”
Marco, che fino a quel momento era rimasto in disparte ad osservare la scena - con un mezzo sorriso -, si lasciò trascinare nel gioco e accorse alla richiesta di aiuto di suo figlio. Si avvicinò alle spalle di sua moglie e la afferrò per i fianchi, sollevandola leggermente da terra. Lucia, dopo un primo momento di stupore, scoppiò a ridere e tentò invano di liberarsi dalla stretta ferrea di Marco.

“Forza, Gabri, vendicati” lo esortò suo padre.
“Ma così non vale, siete due contro una!” esclamò Lucia di rimando, mentre sia suo marito che suo figlio si accanivano a tormentarla col solletico. Persino Marco, a quel punto, si lasciò andare ad una risata sincera. Suo figlio era spensierato, il profumo dei capelli di sua moglie gli penetrava nelle narici ed il suo corpo morbido era stretto tra le sue braccia; Marco si sentì felice, come se tutti i pensieri negativi che lo avevano tormentato da qualche mese a quella parte, per un attimo fossero stati cancellati con una passata di spugna.

“Va bene, va bene. Avete vinto, mi arrendo!” ansimò Lucia, esausta.
“Che dici, Gabri, può bastare?” chiese Marco a suo figlio, con aria complice. Gabriele ci pensò su un attimo e poi rispose con un cenno deciso della testa.
“Siete stati davvero scorretti” sentenziò Lucia, sistemandosi i capelli e sedendosi sulle ginocchia di suo marito che, intanto, si era lasciato cadere su una sedia.
“Sei tu che hai cominciato!” ribatté Gabriele “ io non ho nulla da dire a mia discolpa...”
“Inizia già ad usare i termini tecnici, attenzione...” Marco lanciò un’occhiata divertita a sua moglie. Il pensiero che suo figlio avrebbe potuto intraprendere la loro stessa professione, da una parte, non gli dispiaceva affatto. Dall’altra temeva che potesse ritrovarsi anche lui, alla sua età, a portarsi a casa i sensi di colpa del lavoro. Marco si rendeva conto che fare l’avvocato non era certo il mestiere più semplice del mondo, ma allo stesso tempo era consapevole del fatto che ogni mestiere ha il suo lato oscuro. Lasciarsi andare a quelle elucubrazioni, lo fece adombrare di nuovo. A quella vista, Lucia gli passò dolcemente una mano sul viso.
“Da grande potrebbe diventare un perfetto civilista” aggiunse. “Ma adesso il nostro futuro avvocato va a prepararsi per la scuola, se non vuole un altro attacco letale di solletico...”
Gabriele, ridendo, si allontanò di corsa dal pericolo e si precipitò su per le scale. Lucia e Marco restarono in cucina da soli.

“Non hai toccato cibo stamattina...” sussurrò a suo marito, indicando con un gesto del capo le fette imburrate ancora nel piatto. Marco scosse la testa.
“Non ho molta fame” esclamò. Lucia gli prese il viso tra le mani.
“Si può sapere che ti succede? Sono giorni che ti vedo così…”
“Non è niente. Sono solo un po’ stressato.” Marco scosse la testa con più veemenza.
“Lo sai che con me puoi parlare. L’hai sempre fatto.”
“È il lavoro, Lu. Non riesco a togliermelo dalla testa! Lo sai come sono, mi faccio coinvolgere troppo”
“Ehi… si risolverà tutto, stai tranquillo. Ma tu devi parlare con me.” Lucia appoggiò delicatamente le labbra su quelle del marito, tenendogli sempre il viso tra le mani. Marco strizzò gli occhi e assentì, con un lieve cenno del capo.
“Andrà tutto bene...” Lucia lo baciò di nuovo, con più trasporto, stavolta. Sentì distintamente il sapore delle sue labbra e la sua barba solleticarle la pelle. Gli morse delicatamente il labbro inferiore ed infilò la lingua nella sua bocca. Marco era teso, come se stesse cercando di resistere.
“Lo sai che non ce la faccio...” sussurrò, poi, con un filo di voce. Lucia prese a baciargli la mandibola, scendendo poi pian piano fino al collo.
“Perché non ci proviamo, almeno?” rispose lei, con voce calda e sensuale. Poi, allontanò le labbra dal suo collo e, guardandolo fisso con i suoi grandi occhi scuri, gli prese la mano e se la portò in mezzo alle gambe.

“Lo senti quanto ti voglio?” Lucia socchiuse gli occhi e non poté fare a meno di gemere sommessamente, quando le dita di suo marito le sfiorarono il clitoride. Marco si accorse subito che, sotto la gonna nera e aderente, non portava le mutande e che la sua fica morbida era già abbondantemente bagnata. Lucia ridacchiò della sua espressione sorpresa, poi lo guardò portarsi le dita alle labbra ed assaggiare il suo sapore. Si mordicchiò il labbro ed in un mormorio eccitato, gli disse:

“Marco, scopami...”
“Qui?”
“Qui. Prima che Gabriele torni giù.”
“Lu, io non credo che...” provò a controbattere Marco; ma Lucia si era già sollevata in fretta la gonna e gli era salita a cavalcioni sulle gambe. Lo baciò con foga e Marco non poté fare a meno di afferrarle le natiche e stringerle tra le mani. Cominciò a strusciarsi su di lui, ansimandogli nell’orecchio e con dita veloci gli slacciò i pantaloni. Marco percepì il calore della vagina sul suo membro e avvertì una scarica elettrica attraversargli la schiena. Incapace di trattenersi oltre, le abbassò le bretelle della maglia, cercando freneticamente la sua pelle. Nel frattempo le baciava il collo, fino ad arrivare ai suoi seni enormi, ai suoi capezzoli turgidi, che iniziò a stuzzicare con i denti e con la lingua. Lucia faceva sempre più fatica a contenere i gemiti di piacere, tanto che fu costretta a mettersi una mano sulla bocca.

“Fai piano, o rischiamo di farci sentire” le bisbigliò Marco
“Ti prego, mettimelo dentro...” ribatté lei, con il volto contratto in una smorfia di piacere. Marco, a quel punto, si irrigidì di botto e rimase in silenzio. Quando sua moglie tentò di nuovo di baciarlo, scostò il viso.
“Che succede?” gli chiese. Era così piena di voglia che la voce le uscì quasi disperata.
“Non posso...” sussurrò Marco.
Lucia non desistette: provò a prendergli il pene in mano, a strofinarlo, a massaggiargli i testicoli, ma ogni suo tentativo sembrava non suscitare alcuna reazione.
“Mi dispiace, non riesco a farmelo venire duro.” esclamò Marco sconsolato.
“Ehi… ehi, tesoro, guardami” Lucia gli prese il viso tra le mani “va tutto bene.”
“Non è perché non ti voglio...” cercò di dire Marco, ma lei lo interruppe.
“Lo so. Vedrai, ci proveremo un’altra volta.”
Poi gli baciò teneramente la guancia e sentì le sue mascelle serrarsi.

“La prossima volta andrà bene” ripeté. Poi rimase in silenzio, ancora a cavalcioni su di lui, accarezzandogli il viso. Marco le teneva le mani sul sedere, ma non riusciva nemmeno a sollevare lo sguardo su di lei. All’improvviso il rumore dei passi di Gabriele in cima alle scale sembrò ridestarli.

“Io sono pronto!” gridò il bambino, scendendo le scale di corsa, con lo zaino che gli ballonzolava sulle spalle. Al sentire la sua voce, Marco e Lucia si staccarono velocemente; lei tentò di rivestirsi alla bell’e meglio e lui si riabbottonò i pantaloni, ancora in evidente stato di disagio.
 

Grandel

"Level 7"
Élite Fase 1
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9,097
Punteggio reazione
9,192
Punti
119
Posizione
Jerusalem’s Lot
Questa storia prende spunto da fatti accaduti realmente. Sará suddivisa in 10 parti.

Lucia controllò l’orologio: erano soltanto le otto e un quarto, per cui si tranquillizzò e riprese ad imburrare con cura le fette di pane. Portava i capelli sciolti quella mattina, lunghi, scuri, vaporosi, che ricadevano sulle spalle e le incorniciavano il volto. Un paio di grandi occhi castani spiccavano su un volto dai lineamenti delicati: il naso piccolo e le labbra piene. Aveva deciso di indossare una maglia a maniche lunghe color salmone, dalla cui scollatura a V, prorompeva una quinta di seno; una gonna nera e aderente le fasciava il fondo-schiena altrettanto formoso, un cinturone di Gucci metteva in evidenza la vita sottile e aveva optato, ai piedi, per un paio di ballerine nere con il fiocco. Ogni indumento metteva in risalto il suo corpo curvilineo e carnoso.
Alle sue spalle, intanto, Gabriele trangugiava con gusto una tazza di latte e cereali, mentre suo marito Marco se ne stava seduto a capotavola, intento ad osservare fuori dalla finestra con espressione pensierosa. Era incredibile quanto padre e figlio si assomigliassero: a parte la carnagione olivastra - che il bambino aveva evidentemente ereditato da sua madre – padre e figlio avevano gli stessi occhi scuri, un po’ all’ingiù e la stessa corporatura esile ed allungata. Marco portava, appoggiati sul naso, un paio di occhiali da vista non troppo appariscenti e quel giorno indossava un paio di jeans ed una polo bordeaux. Lucia gli lanciò uno sguardo in tralice e si lasciò andare ad un breve sospiro. Da qualche tempo ormai, suo marito mostrava un’aria afflitta di cui lei non riusciva a spiegarsi la ragione. Erano mesi che non facevano più sesso e Lucia più di una volta si era domandata se quella mancanza di intimità tra di loro fosse stata una causa o un effetto. Tutto ciò che sapeva era che le mancava suo marito; le mancava il suo corpo, il tocco delle sue mani grandi e calde, il modo in cui le prendeva i seni e le baciava delicatamente i capezzoli, le mancava sentirlo dentro di lei…

“Ehi, tesoro, tutto bene?” la voce profonda di Marco la strappò fuori dai suoi pensieri, pensieri bollenti che non era riuscita a trattenere, per via dell’astinenza a lungo mantenuta, e che le avevano causato una notevole pulsazione delle parti basse. Lucia si accorse di essere rimasta imbambolata, con una fetta di pane imburrata in una mano ed il coltello nell’altra, per chissà quanto tempo. Scosse la testa e con un sorriso si rivolse a suo marito:

“Sì, sì, certo. Ero solo un po’ sovrappensiero”
I loro sguardi si intrecciarono per qualche secondo, poi Marco tornò a guardare fuori dalla finestra e Lucia, rassegnata, continuò a spalmare di marmellata le fette di pane. Gabriele, dal canto suo, non aveva nemmeno staccato gli occhi dal televisore, troppo intento a guardare un cartone animato.

“Hai finito di mangiare i cereali?”, gli chiese sua madre.
“Non ancora...” rispose Gabriele, senza darle particolare attenzione.
“Beh, allora sbrigati o faremo tardi a scuola. E quante volte ti ho detto che non si guarda la TV mentre si mangia?”
Non ricevendo alcuna risposta, Lucia si avvicinò a suo figlio di soppiatto e prese a fargli il solletico.

“No, lasciami!” Gabriele distolse lo sguardo dalla televisione e tentò di divincolarsi, ridendo a crepapelle.
“Non ci penso nemmeno, piccolo furfante…” Lucia si unì alla risata, continuando imperterrita a punzecchiarlo. “Mi fermerò solo quando avrò ricevuto un bel bacio!” aggiunse.
“Ma io ho 10 anni, sono grande per queste cose...”
“...e allora non hai scampo!” Lucia, imitando il ruggito di un animale feroce, si abbatté su suo figlio, intrappolandolo nel suo abbraccio.
“Papà, aiutami!”
Marco, che fino a quel momento era rimasto in disparte ad osservare la scena - con un mezzo sorriso -, si lasciò trascinare nel gioco e accorse alla richiesta di aiuto di suo figlio. Si avvicinò alle spalle di sua moglie e la afferrò per i fianchi, sollevandola leggermente da terra. Lucia, dopo un primo momento di stupore, scoppiò a ridere e tentò invano di liberarsi dalla stretta ferrea di Marco.

“Forza, Gabri, vendicati” lo esortò suo padre.
“Ma così non vale, siete due contro una!” esclamò Lucia di rimando, mentre sia suo marito che suo figlio si accanivano a tormentarla col solletico. Persino Marco, a quel punto, si lasciò andare ad una risata sincera. Suo figlio era spensierato, il profumo dei capelli di sua moglie gli penetrava nelle narici ed il suo corpo morbido era stretto tra le sue braccia; Marco si sentì felice, come se tutti i pensieri negativi che lo avevano tormentato da qualche mese a quella parte, per un attimo fossero stati cancellati con una passata di spugna.

“Va bene, va bene. Avete vinto, mi arrendo!” ansimò Lucia, esausta.
“Che dici, Gabri, può bastare?” chiese Marco a suo figlio, con aria complice. Gabriele ci pensò su un attimo e poi rispose con un cenno deciso della testa.
“Siete stati davvero scorretti” sentenziò Lucia, sistemandosi i capelli e sedendosi sulle ginocchia di suo marito che, intanto, si era lasciato cadere su una sedia.
“Sei tu che hai cominciato!” ribatté Gabriele “ io non ho nulla da dire a mia discolpa...”
“Inizia già ad usare i termini tecnici, attenzione...” Marco lanciò un’occhiata divertita a sua moglie. Il pensiero che suo figlio avrebbe potuto intraprendere la loro stessa professione, da una parte, non gli dispiaceva affatto. Dall’altra temeva che potesse ritrovarsi anche lui, alla sua età, a portarsi a casa i sensi di colpa del lavoro. Marco si rendeva conto che fare l’avvocato non era certo il mestiere più semplice del mondo, ma allo stesso tempo era consapevole del fatto che ogni mestiere ha il suo lato oscuro. Lasciarsi andare a quelle elucubrazioni, lo fece adombrare di nuovo. A quella vista, Lucia gli passò dolcemente una mano sul viso.
“Da grande potrebbe diventare un perfetto civilista” aggiunse. “Ma adesso il nostro futuro avvocato va a prepararsi per la scuola, se non vuole un altro attacco letale di solletico...”
Gabriele, ridendo, si allontanò di corsa dal pericolo e si precipitò su per le scale. Lucia e Marco restarono in cucina da soli.

“Non hai toccato cibo stamattina...” sussurrò a suo marito, indicando con un gesto del capo le fette imburrate ancora nel piatto. Marco scosse la testa.
“Non ho molta fame” esclamò. Lucia gli prese il viso tra le mani.
“Si può sapere che ti succede? Sono giorni che ti vedo così…”
“Non è niente. Sono solo un po’ stressato.” Marco scosse la testa con più veemenza.
“Lo sai che con me puoi parlare. L’hai sempre fatto.”
“È il lavoro, Lu. Non riesco a togliermelo dalla testa! Lo sai come sono, mi faccio coinvolgere troppo”
“Ehi… si risolverà tutto, stai tranquillo. Ma tu devi parlare con me.” Lucia appoggiò delicatamente le labbra su quelle del marito, tenendogli sempre il viso tra le mani. Marco strizzò gli occhi e assentì, con un lieve cenno del capo.
“Andrà tutto bene...” Lucia lo baciò di nuovo, con più trasporto, stavolta. Sentì distintamente il sapore delle sue labbra e la sua barba solleticarle la pelle. Gli morse delicatamente il labbro inferiore ed infilò la lingua nella sua bocca. Marco era teso, come se stesse cercando di resistere.
“Lo sai che non ce la faccio...” sussurrò, poi, con un filo di voce. Lucia prese a baciargli la mandibola, scendendo poi pian piano fino al collo.
“Perché non ci proviamo, almeno?” rispose lei, con voce calda e sensuale. Poi, allontanò le labbra dal suo collo e, guardandolo fisso con i suoi grandi occhi scuri, gli prese la mano e se la portò in mezzo alle gambe.

“Lo senti quanto ti voglio?” Lucia socchiuse gli occhi e non poté fare a meno di gemere sommessamente, quando le dita di suo marito le sfiorarono il clitoride. Marco si accorse subito che, sotto la gonna nera e aderente, non portava le mutande e che la sua fica morbida era già abbondantemente bagnata. Lucia ridacchiò della sua espressione sorpresa, poi lo guardò portarsi le dita alle labbra ed assaggiare il suo sapore. Si mordicchiò il labbro ed in un mormorio eccitato, gli disse:

“Marco, scopami...”
“Qui?”
“Qui. Prima che Gabriele torni giù.”
“Lu, io non credo che...” provò a controbattere Marco; ma Lucia si era già sollevata in fretta la gonna e gli era salita a cavalcioni sulle gambe. Lo baciò con foga e Marco non poté fare a meno di afferrarle le natiche e stringerle tra le mani. Cominciò a strusciarsi su di lui, ansimandogli nell’orecchio e con dita veloci gli slacciò i pantaloni. Marco percepì il calore della vagina sul suo membro e avvertì una scarica elettrica attraversargli la schiena. Incapace di trattenersi oltre, le abbassò le bretelle della maglia, cercando freneticamente la sua pelle. Nel frattempo le baciava il collo, fino ad arrivare ai suoi seni enormi, ai suoi capezzoli turgidi, che iniziò a stuzzicare con i denti e con la lingua. Lucia faceva sempre più fatica a contenere i gemiti di piacere, tanto che fu costretta a mettersi una mano sulla bocca.

“Fai piano, o rischiamo di farci sentire” le bisbigliò Marco
“Ti prego, mettimelo dentro...” ribatté lei, con il volto contratto in una smorfia di piacere. Marco, a quel punto, si irrigidì di botto e rimase in silenzio. Quando sua moglie tentò di nuovo di baciarlo, scostò il viso.
“Che succede?” gli chiese. Era così piena di voglia che la voce le uscì quasi disperata.
“Non posso...” sussurrò Marco.
Lucia non desistette: provò a prendergli il pene in mano, a strofinarlo, a massaggiargli i testicoli, ma ogni suo tentativo sembrava non suscitare alcuna reazione.
“Mi dispiace, non riesco a farmelo venire duro.” esclamò Marco sconsolato.
“Ehi… ehi, tesoro, guardami” Lucia gli prese il viso tra le mani “va tutto bene.”
“Non è perché non ti voglio...” cercò di dire Marco, ma lei lo interruppe.
“Lo so. Vedrai, ci proveremo un’altra volta.”
Poi gli baciò teneramente la guancia e sentì le sue mascelle serrarsi.

“La prossima volta andrà bene” ripeté. Poi rimase in silenzio, ancora a cavalcioni su di lui, accarezzandogli il viso. Marco le teneva le mani sul sedere, ma non riusciva nemmeno a sollevare lo sguardo su di lei. All’improvviso il rumore dei passi di Gabriele in cima alle scale sembrò ridestarli.

“Io sono pronto!” gridò il bambino, scendendo le scale di corsa, con lo zaino che gli ballonzolava sulle spalle. Al sentire la sua voce, Marco e Lucia si staccarono velocemente; lei tentò di rivestirsi alla bell’e meglio e lui si riabbottonò i pantaloni, ancora in evidente stato di disagio.
Complimenti, un gran bel primo passo
 

chega

"Level 5"
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583
Punteggio reazione
1,893
Punti
99
Questa storia prende spunto da fatti accaduti realmente. Sará suddivisa in 10 parti.

Lucia controllò l’orologio: erano soltanto le otto e un quarto, per cui si tranquillizzò e riprese ad imburrare con cura le fette di pane. Portava i capelli sciolti quella mattina, lunghi, scuri, vaporosi, che ricadevano sulle spalle e le incorniciavano il volto. Un paio di grandi occhi castani spiccavano su un volto dai lineamenti delicati: il naso piccolo e le labbra piene. Aveva deciso di indossare una maglia a maniche lunghe color salmone, dalla cui scollatura a V, prorompeva una quinta di seno; una gonna nera e aderente le fasciava il fondo-schiena altrettanto formoso, un cinturone di Gucci metteva in evidenza la vita sottile e aveva optato, ai piedi, per un paio di ballerine nere con il fiocco. Ogni indumento metteva in risalto il suo corpo curvilineo e carnoso.
Alle sue spalle, intanto, Gabriele trangugiava con gusto una tazza di latte e cereali, mentre suo marito Marco se ne stava seduto a capotavola, intento ad osservare fuori dalla finestra con espressione pensierosa. Era incredibile quanto padre e figlio si assomigliassero: a parte la carnagione olivastra - che il bambino aveva evidentemente ereditato da sua madre – padre e figlio avevano gli stessi occhi scuri, un po’ all’ingiù e la stessa corporatura esile ed allungata. Marco portava, appoggiati sul naso, un paio di occhiali da vista non troppo appariscenti e quel giorno indossava un paio di jeans ed una polo bordeaux. Lucia gli lanciò uno sguardo in tralice e si lasciò andare ad un breve sospiro. Da qualche tempo ormai, suo marito mostrava un’aria afflitta di cui lei non riusciva a spiegarsi la ragione. Erano mesi che non facevano più sesso e Lucia più di una volta si era domandata se quella mancanza di intimità tra di loro fosse stata una causa o un effetto. Tutto ciò che sapeva era che le mancava suo marito; le mancava il suo corpo, il tocco delle sue mani grandi e calde, il modo in cui le prendeva i seni e le baciava delicatamente i capezzoli, le mancava sentirlo dentro di lei…

“Ehi, tesoro, tutto bene?” la voce profonda di Marco la strappò fuori dai suoi pensieri, pensieri bollenti che non era riuscita a trattenere, per via dell’astinenza a lungo mantenuta, e che le avevano causato una notevole pulsazione delle parti basse. Lucia si accorse di essere rimasta imbambolata, con una fetta di pane imburrata in una mano ed il coltello nell’altra, per chissà quanto tempo. Scosse la testa e con un sorriso si rivolse a suo marito:

“Sì, sì, certo. Ero solo un po’ sovrappensiero”
I loro sguardi si intrecciarono per qualche secondo, poi Marco tornò a guardare fuori dalla finestra e Lucia, rassegnata, continuò a spalmare di marmellata le fette di pane. Gabriele, dal canto suo, non aveva nemmeno staccato gli occhi dal televisore, troppo intento a guardare un cartone animato.

“Hai finito di mangiare i cereali?”, gli chiese sua madre.
“Non ancora...” rispose Gabriele, senza darle particolare attenzione.
“Beh, allora sbrigati o faremo tardi a scuola. E quante volte ti ho detto che non si guarda la TV mentre si mangia?”
Non ricevendo alcuna risposta, Lucia si avvicinò a suo figlio di soppiatto e prese a fargli il solletico.

“No, lasciami!” Gabriele distolse lo sguardo dalla televisione e tentò di divincolarsi, ridendo a crepapelle.
“Non ci penso nemmeno, piccolo furfante…” Lucia si unì alla risata, continuando imperterrita a punzecchiarlo. “Mi fermerò solo quando avrò ricevuto un bel bacio!” aggiunse.
“Ma io ho 10 anni, sono grande per queste cose...”
“...e allora non hai scampo!” Lucia, imitando il ruggito di un animale feroce, si abbatté su suo figlio, intrappolandolo nel suo abbraccio.
“Papà, aiutami!”
Marco, che fino a quel momento era rimasto in disparte ad osservare la scena - con un mezzo sorriso -, si lasciò trascinare nel gioco e accorse alla richiesta di aiuto di suo figlio. Si avvicinò alle spalle di sua moglie e la afferrò per i fianchi, sollevandola leggermente da terra. Lucia, dopo un primo momento di stupore, scoppiò a ridere e tentò invano di liberarsi dalla stretta ferrea di Marco.

“Forza, Gabri, vendicati” lo esortò suo padre.
“Ma così non vale, siete due contro una!” esclamò Lucia di rimando, mentre sia suo marito che suo figlio si accanivano a tormentarla col solletico. Persino Marco, a quel punto, si lasciò andare ad una risata sincera. Suo figlio era spensierato, il profumo dei capelli di sua moglie gli penetrava nelle narici ed il suo corpo morbido era stretto tra le sue braccia; Marco si sentì felice, come se tutti i pensieri negativi che lo avevano tormentato da qualche mese a quella parte, per un attimo fossero stati cancellati con una passata di spugna.

“Va bene, va bene. Avete vinto, mi arrendo!” ansimò Lucia, esausta.
“Che dici, Gabri, può bastare?” chiese Marco a suo figlio, con aria complice. Gabriele ci pensò su un attimo e poi rispose con un cenno deciso della testa.
“Siete stati davvero scorretti” sentenziò Lucia, sistemandosi i capelli e sedendosi sulle ginocchia di suo marito che, intanto, si era lasciato cadere su una sedia.
“Sei tu che hai cominciato!” ribatté Gabriele “ io non ho nulla da dire a mia discolpa...”
“Inizia già ad usare i termini tecnici, attenzione...” Marco lanciò un’occhiata divertita a sua moglie. Il pensiero che suo figlio avrebbe potuto intraprendere la loro stessa professione, da una parte, non gli dispiaceva affatto. Dall’altra temeva che potesse ritrovarsi anche lui, alla sua età, a portarsi a casa i sensi di colpa del lavoro. Marco si rendeva conto che fare l’avvocato non era certo il mestiere più semplice del mondo, ma allo stesso tempo era consapevole del fatto che ogni mestiere ha il suo lato oscuro. Lasciarsi andare a quelle elucubrazioni, lo fece adombrare di nuovo. A quella vista, Lucia gli passò dolcemente una mano sul viso.
“Da grande potrebbe diventare un perfetto civilista” aggiunse. “Ma adesso il nostro futuro avvocato va a prepararsi per la scuola, se non vuole un altro attacco letale di solletico...”
Gabriele, ridendo, si allontanò di corsa dal pericolo e si precipitò su per le scale. Lucia e Marco restarono in cucina da soli.

“Non hai toccato cibo stamattina...” sussurrò a suo marito, indicando con un gesto del capo le fette imburrate ancora nel piatto. Marco scosse la testa.
“Non ho molta fame” esclamò. Lucia gli prese il viso tra le mani.
“Si può sapere che ti succede? Sono giorni che ti vedo così…”
“Non è niente. Sono solo un po’ stressato.” Marco scosse la testa con più veemenza.
“Lo sai che con me puoi parlare. L’hai sempre fatto.”
“È il lavoro, Lu. Non riesco a togliermelo dalla testa! Lo sai come sono, mi faccio coinvolgere troppo”
“Ehi… si risolverà tutto, stai tranquillo. Ma tu devi parlare con me.” Lucia appoggiò delicatamente le labbra su quelle del marito, tenendogli sempre il viso tra le mani. Marco strizzò gli occhi e assentì, con un lieve cenno del capo.
“Andrà tutto bene...” Lucia lo baciò di nuovo, con più trasporto, stavolta. Sentì distintamente il sapore delle sue labbra e la sua barba solleticarle la pelle. Gli morse delicatamente il labbro inferiore ed infilò la lingua nella sua bocca. Marco era teso, come se stesse cercando di resistere.
“Lo sai che non ce la faccio...” sussurrò, poi, con un filo di voce. Lucia prese a baciargli la mandibola, scendendo poi pian piano fino al collo.
“Perché non ci proviamo, almeno?” rispose lei, con voce calda e sensuale. Poi, allontanò le labbra dal suo collo e, guardandolo fisso con i suoi grandi occhi scuri, gli prese la mano e se la portò in mezzo alle gambe.

“Lo senti quanto ti voglio?” Lucia socchiuse gli occhi e non poté fare a meno di gemere sommessamente, quando le dita di suo marito le sfiorarono il clitoride. Marco si accorse subito che, sotto la gonna nera e aderente, non portava le mutande e che la sua fica morbida era già abbondantemente bagnata. Lucia ridacchiò della sua espressione sorpresa, poi lo guardò portarsi le dita alle labbra ed assaggiare il suo sapore. Si mordicchiò il labbro ed in un mormorio eccitato, gli disse:

“Marco, scopami...”
“Qui?”
“Qui. Prima che Gabriele torni giù.”
“Lu, io non credo che...” provò a controbattere Marco; ma Lucia si era già sollevata in fretta la gonna e gli era salita a cavalcioni sulle gambe. Lo baciò con foga e Marco non poté fare a meno di afferrarle le natiche e stringerle tra le mani. Cominciò a strusciarsi su di lui, ansimandogli nell’orecchio e con dita veloci gli slacciò i pantaloni. Marco percepì il calore della vagina sul suo membro e avvertì una scarica elettrica attraversargli la schiena. Incapace di trattenersi oltre, le abbassò le bretelle della maglia, cercando freneticamente la sua pelle. Nel frattempo le baciava il collo, fino ad arrivare ai suoi seni enormi, ai suoi capezzoli turgidi, che iniziò a stuzzicare con i denti e con la lingua. Lucia faceva sempre più fatica a contenere i gemiti di piacere, tanto che fu costretta a mettersi una mano sulla bocca.

“Fai piano, o rischiamo di farci sentire” le bisbigliò Marco
“Ti prego, mettimelo dentro...” ribatté lei, con il volto contratto in una smorfia di piacere. Marco, a quel punto, si irrigidì di botto e rimase in silenzio. Quando sua moglie tentò di nuovo di baciarlo, scostò il viso.
“Che succede?” gli chiese. Era così piena di voglia che la voce le uscì quasi disperata.
“Non posso...” sussurrò Marco.
Lucia non desistette: provò a prendergli il pene in mano, a strofinarlo, a massaggiargli i testicoli, ma ogni suo tentativo sembrava non suscitare alcuna reazione.
“Mi dispiace, non riesco a farmelo venire duro.” esclamò Marco sconsolato.
“Ehi… ehi, tesoro, guardami” Lucia gli prese il viso tra le mani “va tutto bene.”
“Non è perché non ti voglio...” cercò di dire Marco, ma lei lo interruppe.
“Lo so. Vedrai, ci proveremo un’altra volta.”
Poi gli baciò teneramente la guancia e sentì le sue mascelle serrarsi.

“La prossima volta andrà bene” ripeté. Poi rimase in silenzio, ancora a cavalcioni su di lui, accarezzandogli il viso. Marco le teneva le mani sul sedere, ma non riusciva nemmeno a sollevare lo sguardo su di lei. All’improvviso il rumore dei passi di Gabriele in cima alle scale sembrò ridestarli.

“Io sono pronto!” gridò il bambino, scendendo le scale di corsa, con lo zaino che gli ballonzolava sulle spalle. Al sentire la sua voce, Marco e Lucia si staccarono velocemente; lei tentò di rivestirsi alla bell’e meglio e lui si riabbottonò i pantaloni, ancora in evidente stato di disagio.
Seguo
 
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Parte 2

Non ho molti ricordi di quel giorno. Diciamo più: una serie di sensazioni. Mi ricordo che ero in camera mia a prepararmi per la scuola. Non che ne avessi particolarmente voglia, ad essere sinceri, ma sapevo di non avere molta scelta. Mi spogliai del mio pigiama preferito (quello che mi regalò mia madre per il compleanno dei miei cinque anni) e mi vestii con cura: una maglietta a righe, un paio di pantaloncini neri e le mie scarpe da ginnastica preferite; quelle della Nike con le strisce colorate sui lati (le avevo messe così tanto che mi stupisco ancora di come non siano cadute a pezzi). Ispezionai lo zaino, per sincerarmi che ci fosse tutto il necessario, poi passai al volo in bagno a lavarmi i denti; mia madre prima di uscire, controllava sempre che me li fossi lavati per bene. Infine lanciai un’occhiata all’orologio con le lancette di topolino, appeso sopra la scrivania e mi resi conto che erano già quasi le nove. Mi stupii che la mamma non fosse già salita a bussare per dirmi che rischiavo di farle fare tardi a lavoro. Tra l’altro sapevo che quello sarebbe stato un giorno particolare per lei, visto il processo che doveva affrontare in tribunale. Così decisi di raggiungerla io al piano di sotto, pensando che potesse essersi dilungata a parlare con mio padre per qualche motivo che non conoscevo.

Già aprendo la porta della mia stanza mi resi conto che stava accadendo qualcosa di diverso dal solito. Non sentivo le voci dei miei genitori provenire dal piano inferiore; sentivo soltanto degli strani rumori, come il cigolio di una delle sedie della cucina e una sorta di respirare affannoso che non riuscii a riconoscere. Una volta arrivato in cima alle scale vidi mia madre seduta a cavalcioni di mio padre. Non che la cosa mi stupisse particolarmente, più di una volta li avevo visti in quella posizione, anche io sedevo spesso sulle gambe di mia madre. Quello che mi diede da pensare fu il loro atteggiamento ed il fatto che mia madre sembrasse piuttosto scompigliata. Ricordo che notai chiaramente un rossore diffuso sul suo volto. Mi riuscì impossibile capire bene cosa stessero facendo, tantomeno riuscii a sentire di cosa stessero parlando. Eppure la situazione mi mise non poco a disagio. I miei genitori erano sempre molto affiatati tra di loro e spesso li vedevo scambiarsi qualche bacio o qualche carezza, ma mai mi era capitato di assistere ad una situazione così strana.

Perciò decisi di annunciare loro la mia presenza. Come sospettavo, li avevo colti di sorpresa. Infatti mia madre si alzò di scatto e mi rivolse un’occhiata indecifrabile, mio padre invece restò seduto a trafficare con qualcosa che sembrava avere sulle gambe, ma non riuscii a capire cosa. Ebbi come l’impressione che mia madre fosse mezza nuda, ma all’epoca non diedi troppa importanza alla cosa, o forse non volli dargliela. Ero piuttosto sensibile a quegli argomenti; mi trovavo in quella fase in cui il corpo è una continua scoperta e in cui certi temi sono oggetto di interesse misto ad imbarazzo (in particolar modo quando si trattava di mia madre).

Corsi giù dalle scale e le dissi che ero pronto per andare.
“Tu perché non sei ancora pronta?” le chiesi
“Hai ragione tesoro. Dammi un minuto e usciamo” mi rispose lei. Poi fece a mio padre una carezza sul viso e si diresse in fretta verso la camera da letto.
“Ma guarda che la tua giacca è qui!” esclamai. Mio padre mi disse che la mamma si era scordata una cosa, ma che sarebbe stata questione di un minuto. Aveva un’espressione parecchio triste, mio padre, quel giorno… più triste del solito, insomma. Restammo in silenzio qualche istante, ma io morivo dalla voglia di sapere, per cui alla fine domandai:
“Che stavate facendo?”
Lo colsi del tutto alla sprovvista con quella domanda e lui tentò di balbettare qualcosa, senza però riuscire a dissipare la mia curiosità. Ci pensò mia madre ad interrompere quel momento di imbarazzo. Apparve sulle scale, si infilò la giacca e prese la cartella in fretta e furia. Poi, alla fine, con un sorriso sul volto, disse:
“Mamma e papà si stavano solo abbracciando, amore” e mi assestò una carezza sulla testa. Mi ricordo che la sua spiegazione non mi convinse appieno, ma me la feci andar bene. Dopodiché salutammo mio padre, uscimmo di casa e io mi trascinai appresso i miei dubbi e le mie domande in quella mattinata splendente di sole.



L’aula di tribunale era immersa nel silenzio, spezzato a volte da brusii sommessi. Il giudice si era ritirato per deliberare, lasciando come unici presenti – nella grande sala semivuota – soltanto l’accusa, Lucia ed il suo cliente. Alim era un immigrato di origini africane sulla trentina; la camicia che indossava per l’occasione metteva in evidenza i muscoli possenti del petto e delle braccia e dal collo – su cui si intravedeva la trama fitta dei suoi tatuaggi – gli pendevano delle collanine dorate e calzava un berretto sui capelli tagliati corti.
“Stia tranquillo” gli sussurrò Lucia.
“Pensa che andrà bene?” chiese Alim, tamburellandosi nervosamente la coscia con le dita.
“Ma certo. Vedrà che il giudice non potrà che pronunciarsi positivamente sulla sentenza.” ci tenne a rassicurarlo lei, intenta a sistemare le carte sparse sul tavolo.
Alim la osservò con aria seria. I suoi occhi seguirono la linee del viso di Lucia con profondo interesse, scivolando giù fino al collo, al seno prominente che faceva capolino dalla maglia incrociata sul petto, ai fianchi stretti da una cintura, fino al sedere sodo fasciato dalla gonna nera e aderente. Per quanto in ansia per la sentenza, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso; le avrebbe volentieri passato le mani tra i capelli, gliele avrebbe infilate sotto la maglia a sfiorare la pelle, avrebbe voluto sentirla – calda e soffice – sotto i palmi. La sua fantasia prese il volo e immaginò di spogliarla, baciarle la schiena, caricarla di peso sul tavolo e, dopo averle aperto le gambe, tuffare il viso nella sua fica. Fu costretto ad accavallare le gambe, per nascondere l’erezione prepotente che gli bussava dai pantaloni, all’idea di scoparsela lì, incurante degli sguardi altrui.
“Va tutto bene?”
La voce di Lucia lo riportò alla realtà. Si accorse che lo stava scrutando a fondo. Fece un cenno di assenso con la testa e bevve un sorso d’acqua, nel tentativo di placare quei pensieri infuocati che gli rimbalzavano nel cervello.
“Stavo solo fantasticando.” le rispose poi, mascherando il tremolio eccitato della sua voce.
“Non per vantarmi, ma so fare bene il mio lavoro, se è di questo che si preoccupa...” esclamò lei, con un sorriso.
“Ne sono sicuro. No, stavo pensando ad altro… ma niente di importante.”
La fissò a lungo negli occhi, fino a che lei non fu costretta a distogliere lo sguardo. Il ritorno in aula del giudice e della giuria spezzarono quel momento di lieve imbarazzo tra i due. Lucia si alzò in piedi e gli fece cenno di fare altrettanto. Alim non poté farci nulla, tornò con lo sguardo alle sue gambe e dovette scacciare a forza l’immagine di lei inginocchiata ai suoi piedi con il suo membro tra le labbra e quegli stupendi occhi scuri che lo fissavano maliziosamente.
“Siamo giunti ad una conclusione all’unanimità” sentenziò il giudice, con voce stentorea.
“In base all’articolo 73, comma 5 d.P.R. 309/1990, il qui presente Alim [cognome] è stato giudicato colpevole di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti e psicotrope.” continuò.
Alim, a sentire quelle parole, trasalì; ma Lucia tentò di tranquillizzarlo con cenno della mano. Il giudice proseguì nel suo discorso:“Ma pertanto, viste le prove presentate dalla difesa e al cospetto di fatti assumibili nell’ambito dell’articolo 73, comma 5 del Testo Unico sugli stupefacenti, le accuse sopracitate rientrano nel campo dei cosiddetti ‘fatti di lieve entità’. Per l’accusato si commina, dunque, la pena di sei mesi agli arresti domiciliari...”
Alim tirò un sospiro di sollievo. Tutti quei paroloni a lui perlopiù incomprensibili, avevano acquisito senso quando il giudice aveva pronunciato le parole “arresti domiciliari”. In fondo sarebbe stato ingenuo da parte sua sperare in un’assoluzione totale; Alim si disse che sei mesi di arresti domiciliari sarebbero andati più che bene! Lucia si voltò verso di lui e gli sussurrò:
“Che le avevo detto? È un ottimo compromesso, nella sua condizione. Abbiamo evitato la prigione!” Poi tornò a prestare attenzione alle parole del giudice, che sembrava averla chiamata in causa personalmente.
“Viste le condizioni familiari dell’accusato, l’improprietà dell’eventuale decisione di assegnarlo ad una reclusione in casa di cura, il verdetto è il seguente: i primi due mesi degli arresti saranno da trascorrere nel domicilio dell’avvocato alla difesa, in attesa di un ulteriore procedimento probatorio.”
“Cosa?!” si lasciò sfuggire Lucia, ad alta voce. Dal tavolo dell’accusa si sollevarono delle risatine sommesse. Lucia fulminò il collega con lo sguardo.
“Chiedo scusa, Vostro Onore, posso avvicinarmi per parlamentare con lei in privato?” chiese poi. Il giudice acconsentì e Lucia si avvicinò a passi decisi al banco del giudice.
“Non capisco… è una formula quantomai bislacca, se posso permettermi. Io trovo che...” ma il giudice la interruppe con un gesto della mano.
“Mi rendo conto, Avvocato Esposito. Possiamo definirla una procedura di emergenza, visti i presupposti, ma abbiamo convenuto che, visto quanto a cuore sembra essersi presa questo caso, sia la soluzione migliore. In fin dei conti si tratta di un periodo piuttosto breve e posso assicurarle che non correrà alcun rischio.” Lucia, allora, tornò alla carica.
“Non mi permetterei mai di contestare una decisione presa all’unanimità, ma lei deve capire che io non vivo da sola. Ho un figlio piccolo e per quanto trovi che l’accusato non sia un soggetto pericoloso, non mi sembra il caso di...” il giudice la interruppe di nuovo e stavolta la sua sentenza fu lapidaria:
“O così o la prigione. Dipende da lei...”
Lucia restò a bocca aperta. Non sembrava avere possibilità di scelta. Aveva combattuto strenuamente perché il suo assistito non finisse in prigione, per cui quella le sembrò davvero l’unica possibilità. Annuì, con il viso contratto in una smorfia impenetrabile.
“D’accordo allora.” e in silenzio tornò dietro al suo tavolo. Fu accolta da Alim, che la osservava in silenzio, la fronte corrugata in un’espressione interrogativa; lei lo rassicurò con lo sguardo.
“Così la seduta è tolta.” esclamò il giudice e si ritirò. L’aula piombò in un silenzio denso.
“Beh, non so che dire...” sussurrò Alim.
“Non c’è bisogno di dire nulla, non si preoccupi, non dipende da lei.” ribatté Lucia. Poi, rendendosi conto di essere risultata alquanto brusca, si voltò verso il ragazzo e addolcì il tono.
“Sono sicura che sia la soluzione migliore.” aggiunse sorridendo.
Alim si sporse verso di lei e le prese la mano tra le sue.
“Non so davvero come ringraziarla. Nessuno aveva mai fatto tanto per me...”
Quel contatto inaspettato produsse in Lucia una cascata di brividi che le scivolarono lungo la schiena; le sue mani calde, la sua stretta decisa… si sentì scossa da un tremito di vulnerabilità di cui non seppe spiegarsi la ragione.
“Faccio solo il mio lavoro” balbettò. I due si fissarono per un istante, poi Lucia, per togliersi da quella situazione che iniziava a farsi imbarazzante, tornò a darsi un contegno e asserì di dover fare una telefonata. Motivare tutta quella storia a Marco non sarebbe stato per niente facile. Così infilò in tutta fretta i documenti nella cartella e si diresse verso la porta dell’aula, lasciando che due poliziotti scortassero Alim all’esterno.

Continua...
 

timassaggio

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"Viste le condizioni familiari dell’accusato, l’improprietà dell’eventuale decisione di assegnarlo ad una reclusione in casa di cura, il verdetto è il seguente: i primi due mesi degli arresti saranno da trascorrere nel domicilio dell’avvocato alla difesa, in attesa di un ulteriore procedimento probatorio.”

Non sono un leguleio, a mala pena conosco la differenza tra codice civile e codice penale, ma non sapevo esistesse un provvedimento/pena accessoria di domiciliazione coatta al domicilio del difensore.

Detto ciò: chapeau! 👏👏👏
Scritto benissimo, godibilissimo.
Non vedo l'ora di rileggerti.
A presto.
 

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Sorvolando sull "esperienza reale" la storia prende connotati particolari e potenzialmente esplosivi....donna prosperosa e vogliosa, marito impotente, figlio che esplora la sessualità e quarto incomodo probabilmente superdotato
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Sorvolando sull "esperienza reale" la storia prende connotati particolari e potenzialmente esplosivi....donna prosperosa e vogliosa, marito impotente, figlio che esplora la sessualità e quarto incomodo probabilmente superdotato
 
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Parte 3

Qualche ora dopo, Lucia, Alim e i due poliziotti si presentarono a casa Esposito. Marco era uscito ad aspettarli sulla soglia ed in volto gli si leggeva chiaramente il disappunto. Lucia lo salutò con un veloce bacio sulla guancia e lo pregò con lo sguardo – come se fosse riuscita a leggergli nel pensiero – di rimandare a dopo ogni discussione. Marco non rispose e si limitò a trincerarsi dietro un’espressione vagamente accusatoria.

“Porto Gabriele nella sua stanza” disse.
“Ma certo, certo. Qui ci penso io.” rispose Lucia.

Intanto Alim era entrato in casa e si stava guardando attorno con aria curiosa. Le guardie che lo scortavano procedettero a togliergli le manette e a sistemargli la cavigliera elettronica.

“Non gli è consentito allontanarsi a più di 500 metri dalla casa e con questa controlleremo ogni suo spostamento.” sentenziò uno dei poliziotti.
“Inoltre” continuò “ci terremo in contatto con lei settimanalmente.” notando l’espressione turbata di Lucia si sentì in dovere di rassicurarla.
“Non deve preoccuparsi. Sarà tenuto costantemente sotto controllo. Al primo sgarro verremo a prelevarlo. Lei e la sua famiglia non correrete alcun pericolo.” Lucia annuì.
“Sono molto tranquilla, grazie davvero” esclamò. Poi rivolse uno sguardo ad Alim, che come al solito non le toglieva gli occhi di dosso. “Sarà senz’altro una convivenza pacifica...” e gli sorrise.

I poliziotti salutarono e tornarono alla macchina, chiudendosi la porta di casa alle spalle. Nel tinello regnava un silenzio teso, che si fece ancora più palpabile quando Marco rientrò nella stanza.

“Si metta comodo, faccia come fosse a casa sua.” disse Lucia al ragazzo. Alim si avvicinò a Marco e gli porse la mano per presentarsi.
“Mi dispiace per questa situazione e anzi ci tenevo a ringraziarla per l’ospitalità.” disse. Marco non gli strinse la mano, si limitò a scrutarlo.

“Se non ti dispiace vorrei parlare un momento con mia moglie...” aggiunse poi, con un sorriso tirato sul viso.
“Può darsi una rinfrescata al bagno, se ne ha bisogno. È al piano di sopra e gli asciugamani sono nello sportello in basso sotto al lavandino.” si affrettò a dire Lucia. Alim ringraziò con un cenno del capo e si dileguò su per le scale. Marco e sua moglie rimasero soli.

“Si può sapere che ti è saltato in mente? Porti gli spacciatori in casa, adesso?” sibilò Marco
“Non è stata una mia decisione...” ribatté sua moglie.
“Potevi mandarlo in prigione.”
“Dopo tutta la fatica che ho fatto per farlo scagionare?”
“Senti...” la voce di Marco sembrava stanca. Sospirando, le poggiò le mani sulle spalle. “Io so quanto tu prenda a cuore i casi che tratti, è questo che mi piace di te e sai che lo capisco anche troppo bene, ma stavolta hai esagerato. Fossimo da soli… ma c’è Gabriele in casa, ci hai pensato?” continuò. Lucia si divincolò con un gesto stizzito.
“E me lo chiedi? Certo che ci ho pensato. Ma hai sentito che hanno detto? Non c’è pericolo. Per cui le cose stanno così, che ti piaccia o no.” era la sua ultima parola. Poi si diresse verso la cucina e tirò fuori dalla credenza la macchinetta del caffè, con le mani che tremavano dal nervoso. Marco le si avvicinò e la abbracciò da dietro. Poggiò la fronte tra i suoi capelli e sussurrò:

“D’accordo. Scusami se ho dubitato di te. Me lo farò andar bene.”
“Grazie...” Lucia posò la caffettiera sul ripiano del lavandino e si voltò verso suo marito. “Andrà tutto bene.” e lo baciò.

Intanto Alim, intento ad ascoltare la conversazione dalla cima delle scale senza farsi accorgere, cominciò ad avere l’impressione di essere osservato. Si voltò e scorse il viso di Gabriele, che lo spiava dalla porta della sua camera.

“Ehi!”
“Sei tu quello che viene a stare a casa nostra?” chiese Gabriele, in un bisbiglio.
“Sono io. Mi chiamo Alim e tu chi sei?” disse il ragazzo.
“Gabriele.”
“È proprio un bel nome, piccoletto.”
“Io non sono piccolo. Ho dieci anni, sai?” ribatté Gabriele, stizzito.
“Ah beh, allora sei già un uomo...” convenne Alim.
“Tu sei nero.”
Alim scoppiò a ridere. “Eh sì. Sai, la mia mamma era nera. Ed era bella, proprio come la tua.” aggiunse. Poi si accucciò accanto a Gabriele e si arrotolò la manica della camicia fino al gomito. “Guarda, ti faccio vedere una cosa… ti piacciono i tatuaggi?” gli chiese. Gabriele spalancò gli occhi e sorrise.
“Sì, mi piacciono. Ma quanti ne hai?”
Alim gli strizzò l’occhio. “Te li faccio vedere se tu mi mostri la tua stanza.” Gabriele ci rifletté per un secondo, poi lo prese per mano e lo trascinò dentro.



**


Mi sembrava un tipo in gamba, uno tosto, insomma. Mi ricordo che gli mostrai tutti i miei giocattoli, il mio letto a castello, i videogames e lui mi stette ad ascoltare senza mai annoiarsi. Poi gli chiesi di farmi vedere i suoi tatuaggi. All’epoca sapevo di essere troppo piccolo, ma già sognavo di farmeli. Ne aveva uno bellissimo a forma di teschio sull’avambraccio. Gli chiesi di raccontarmi perché se l’era fatto e lui mi disse che era il simbolo della sua gang. Io non avevo la minima idea di cosa fosse una gang, ovviamente, e Alim mi spiegò che era come una sorta di grande famiglia. Era un tipo tosto, che mi sarebbe piaciuto avere come migliore amico.
Poco dopo sentimmo bussare alla porta della stanza. Ci accorgemmo che mia madre faceva capolino e chissà da quanto era rimasta ad osservare la scena. In mano aveva una pila di asciugamani e lenzuola. Mi ricordo che stava sorridendo.
“Vedo che state facendo amicizia, voi due.” disse. Alim, vedendola, si era alzato in piedi ed aveva risposto con un cenno della testa. La guardava fissa, senza mai distogliere lo sguardo. Ripensandoci ora, mi rendo conto che era palese quanto gli piacesse.

“Sa, mio figlio non è solito dare confidenza agli sconosciuti.”
“Mi sento molto onorato, allora.” disse lui, mostrando i denti bianchissimi in un sorriso. Iniziando a sentirmi un po’ tagliato fuori dalla conversazione, chiesi a mia madre se Alim poteva dormire nella mia stanza; lei sorrise.
“Beh, la casa – come ha potuto vedere – non è molto grande e onestamente non mi sento di consigliarle il divano. Non è comodo per dormire...” disse, “per cui se le va bene potrebbe dormire nel letto di sotto, qui in camera di Gabriele.”

Io mi aggrappai al braccio di Alim, piagnucolando.
“Ti prego, ti prego, ti prego!”

Alim si mise a ridere e si disse d’accordo.
“Ma certo, per me non c’è problema. Io e quest’ometto ci troveremo benissimo.” sentenziò, arruffandomi i capelli con una mano. Poi si avvicinò a mia madre e prese gli asciugamani e le lenzuola che lei gli tendeva. Mi sembrò di vederla sussultare quando le loro mani per sbaglio si sfiorarono. Così ci augurò la buonanotte e si dileguò in fretta nel corridoio. Si può dire che la mia amicizia con Alim iniziò quella sera stessa. Lo aiutai a rifare il letto e gli promisi che nei giorni seguenti gli avrei comprato dei vestiti nuovi. Quando ci ritrovammo entrambi coricati – lui nel letto di sotto ed io in quello di sopra – iniziammo a parlare.

“Che lavoro fai tu?” gli chiesi. Alim ridacchiò. Ricordo che aveva una risata profonda, un po’ graffiata. Poi rispose:
“Diciamo che mi occupo di vendere determinate cose alle persone...”
“E che cose?” insistetti.
“Beh dunque… come te lo spiego… cose che aiutano la gente.”
“Oh. Quindi sei una brava persona!”
“Spero proprio di sì, ometto.”
“E cosa fai quando non lavori?” chiesi ancora. Avevo così tante domande che avrei voluto fargli…
“Beh, esco con i miei amici, andiamo a giocare a bowling…”
“A bowling?”
“Sì, tu sai giocare a bowling?”
“Certo che so giocare a bowling, ma i miei non è che mi ci portano spesso”
“Allora ti prometto che prima o poi ci andiamo insieme. Che dici?”

Sentivo il cuore scoppiarmi nel petto. Mi sembrava di vivere in un sogno.

“Non vedo l’ora!!!” esclamai. Poi rimanemmo in silenzio per un po’. Io già fantasticavo su tutte le tecniche segrete del bowling che il mio nuovo amico mi avrebbe insegnato. Ad un certo punto, quando pensavo si fosse già addormentato, Alim mi chiese:

“Quindi tuo padre non ti porta al bowling?” aveva qualcosa di strano nella voce, ma all’epoca non ci feci caso. Io, in risposta, scossi la testa. Solo dopo un’istante mi accorsi che, da sotto, lui non poteva vedermi.
“L’ultima volta che ci siamo andati era un sacco di tempo fa… mio papà lavora tanto, sai.”
“mm, ho capito. E tua mamma, invece? Mi sembra che ti voglia molto bene. Non ti ci porta nemmeno lei?”
“Mia mamma mi vuole bene. Certe volte mi dà i baci in pubblico e io mi vergogno. Però non dirglielo questo.”

Sentii Alim ridere di nuovo, sommessamente, forse per non farmene accorgere.

“Te lo prometto.” Sentenziò poi.
“E comunque no, non mi porta al bowling. Ogni tanto andiamo insieme al parco o a prendere il gelato, ma lavora tanto anche lei...”
“Tranquillo, adesso ci penso io a te. Vedrai che ci divertiremo un sacco, insieme.” esclamò lui. “e invece tuo papà e tua mamma… vanno d’accordo?” aggiunse

Io non capii subito il perché di quella domanda, ma in fondo non ci vidi nulla di male a rispondere.

“Lo vuoi sapere un segreto?” chiesi
“Ma certo. Rimarrà solo tra me e te, ometto.” mi sussurrò lui di rimando.
“Beh, mio papà è sempre tanto triste ultimamente, non so perché. Ogni tanto si danno dei baci, con la mamma, ma non come facevano una volta.” soffermarmi su quelle riflessioni mi metteva tanto di cattivo umore quanto mi sollevava invece poterne parlare con qualcuno. Era faticoso a quell’età tenermi tutto dentro, non erano faccende di cui mi sentissi a mio agio a parlare con gli amici.

“Sono cose che capitano. Fidati, vedrai che da adesso in poi andrà tutto per il meglio...”
“Dici?”
“Ne sono sicuro.”


Continua....
 

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Parte 3

Qualche ora dopo, Lucia, Alim e i due poliziotti si presentarono a casa Esposito. Marco era uscito ad aspettarli sulla soglia ed in volto gli si leggeva chiaramente il disappunto. Lucia lo salutò con un veloce bacio sulla guancia e lo pregò con lo sguardo – come se fosse riuscita a leggergli nel pensiero – di rimandare a dopo ogni discussione. Marco non rispose e si limitò a trincerarsi dietro un’espressione vagamente accusatoria.

“Porto Gabriele nella sua stanza” disse.
“Ma certo, certo. Qui ci penso io.” rispose Lucia.

Intanto Alim era entrato in casa e si stava guardando attorno con aria curiosa. Le guardie che lo scortavano procedettero a togliergli le manette e a sistemargli la cavigliera elettronica.

“Non gli è consentito allontanarsi a più di 500 metri dalla casa e con questa controlleremo ogni suo spostamento.” sentenziò uno dei poliziotti.
“Inoltre” continuò “ci terremo in contatto con lei settimanalmente.” notando l’espressione turbata di Lucia si sentì in dovere di rassicurarla.
“Non deve preoccuparsi. Sarà tenuto costantemente sotto controllo. Al primo sgarro verremo a prelevarlo. Lei e la sua famiglia non correrete alcun pericolo.” Lucia annuì.
“Sono molto tranquilla, grazie davvero” esclamò. Poi rivolse uno sguardo ad Alim, che come al solito non le toglieva gli occhi di dosso. “Sarà senz’altro una convivenza pacifica...” e gli sorrise.

I poliziotti salutarono e tornarono alla macchina, chiudendosi la porta di casa alle spalle. Nel tinello regnava un silenzio teso, che si fece ancora più palpabile quando Marco rientrò nella stanza.

“Si metta comodo, faccia come fosse a casa sua.” disse Lucia al ragazzo. Alim si avvicinò a Marco e gli porse la mano per presentarsi.
“Mi dispiace per questa situazione e anzi ci tenevo a ringraziarla per l’ospitalità.” disse. Marco non gli strinse la mano, si limitò a scrutarlo.

“Se non ti dispiace vorrei parlare un momento con mia moglie...” aggiunse poi, con un sorriso tirato sul viso.
“Può darsi una rinfrescata al bagno, se ne ha bisogno. È al piano di sopra e gli asciugamani sono nello sportello in basso sotto al lavandino.” si affrettò a dire Lucia. Alim ringraziò con un cenno del capo e si dileguò su per le scale. Marco e sua moglie rimasero soli.

“Si può sapere che ti è saltato in mente? Porti gli spacciatori in casa, adesso?” sibilò Marco
“Non è stata una mia decisione...” ribatté sua moglie.
“Potevi mandarlo in prigione.”
“Dopo tutta la fatica che ho fatto per farlo scagionare?”
“Senti...” la voce di Marco sembrava stanca. Sospirando, le poggiò le mani sulle spalle. “Io so quanto tu prenda a cuore i casi che tratti, è questo che mi piace di te e sai che lo capisco anche troppo bene, ma stavolta hai esagerato. Fossimo da soli… ma c’è Gabriele in casa, ci hai pensato?” continuò. Lucia si divincolò con un gesto stizzito.
“E me lo chiedi? Certo che ci ho pensato. Ma hai sentito che hanno detto? Non c’è pericolo. Per cui le cose stanno così, che ti piaccia o no.” era la sua ultima parola. Poi si diresse verso la cucina e tirò fuori dalla credenza la macchinetta del caffè, con le mani che tremavano dal nervoso. Marco le si avvicinò e la abbracciò da dietro. Poggiò la fronte tra i suoi capelli e sussurrò:

“D’accordo. Scusami se ho dubitato di te. Me lo farò andar bene.”
“Grazie...” Lucia posò la caffettiera sul ripiano del lavandino e si voltò verso suo marito. “Andrà tutto bene.” e lo baciò.

Intanto Alim, intento ad ascoltare la conversazione dalla cima delle scale senza farsi accorgere, cominciò ad avere l’impressione di essere osservato. Si voltò e scorse il viso di Gabriele, che lo spiava dalla porta della sua camera.

“Ehi!”
“Sei tu quello che viene a stare a casa nostra?” chiese Gabriele, in un bisbiglio.
“Sono io. Mi chiamo Alim e tu chi sei?” disse il ragazzo.
“Gabriele.”
“È proprio un bel nome, piccoletto.”
“Io non sono piccolo. Ho dieci anni, sai?” ribatté Gabriele, stizzito.
“Ah beh, allora sei già un uomo...” convenne Alim.
“Tu sei nero.”
Alim scoppiò a ridere. “Eh sì. Sai, la mia mamma era nera. Ed era bella, proprio come la tua.” aggiunse. Poi si accucciò accanto a Gabriele e si arrotolò la manica della camicia fino al gomito. “Guarda, ti faccio vedere una cosa… ti piacciono i tatuaggi?” gli chiese. Gabriele spalancò gli occhi e sorrise.
“Sì, mi piacciono. Ma quanti ne hai?”
Alim gli strizzò l’occhio. “Te li faccio vedere se tu mi mostri la tua stanza.” Gabriele ci rifletté per un secondo, poi lo prese per mano e lo trascinò dentro.



**


Mi sembrava un tipo in gamba, uno tosto, insomma. Mi ricordo che gli mostrai tutti i miei giocattoli, il mio letto a castello, i videogames e lui mi stette ad ascoltare senza mai annoiarsi. Poi gli chiesi di farmi vedere i suoi tatuaggi. All’epoca sapevo di essere troppo piccolo, ma già sognavo di farmeli. Ne aveva uno bellissimo a forma di teschio sull’avambraccio. Gli chiesi di raccontarmi perché se l’era fatto e lui mi disse che era il simbolo della sua gang. Io non avevo la minima idea di cosa fosse una gang, ovviamente, e Alim mi spiegò che era come una sorta di grande famiglia. Era un tipo tosto, che mi sarebbe piaciuto avere come migliore amico.
Poco dopo sentimmo bussare alla porta della stanza. Ci accorgemmo che mia madre faceva capolino e chissà da quanto era rimasta ad osservare la scena. In mano aveva una pila di asciugamani e lenzuola. Mi ricordo che stava sorridendo.
“Vedo che state facendo amicizia, voi due.” disse. Alim, vedendola, si era alzato in piedi ed aveva risposto con un cenno della testa. La guardava fissa, senza mai distogliere lo sguardo. Ripensandoci ora, mi rendo conto che era palese quanto gli piacesse.

“Sa, mio figlio non è solito dare confidenza agli sconosciuti.”
“Mi sento molto onorato, allora.” disse lui, mostrando i denti bianchissimi in un sorriso. Iniziando a sentirmi un po’ tagliato fuori dalla conversazione, chiesi a mia madre se Alim poteva dormire nella mia stanza; lei sorrise.
“Beh, la casa – come ha potuto vedere – non è molto grande e onestamente non mi sento di consigliarle il divano. Non è comodo per dormire...” disse, “per cui se le va bene potrebbe dormire nel letto di sotto, qui in camera di Gabriele.”

Io mi aggrappai al braccio di Alim, piagnucolando.
“Ti prego, ti prego, ti prego!”

Alim si mise a ridere e si disse d’accordo.
“Ma certo, per me non c’è problema. Io e quest’ometto ci troveremo benissimo.” sentenziò, arruffandomi i capelli con una mano. Poi si avvicinò a mia madre e prese gli asciugamani e le lenzuola che lei gli tendeva. Mi sembrò di vederla sussultare quando le loro mani per sbaglio si sfiorarono. Così ci augurò la buonanotte e si dileguò in fretta nel corridoio. Si può dire che la mia amicizia con Alim iniziò quella sera stessa. Lo aiutai a rifare il letto e gli promisi che nei giorni seguenti gli avrei comprato dei vestiti nuovi. Quando ci ritrovammo entrambi coricati – lui nel letto di sotto ed io in quello di sopra – iniziammo a parlare.

“Che lavoro fai tu?” gli chiesi. Alim ridacchiò. Ricordo che aveva una risata profonda, un po’ graffiata. Poi rispose:
“Diciamo che mi occupo di vendere determinate cose alle persone...”
“E che cose?” insistetti.
“Beh dunque… come te lo spiego… cose che aiutano la gente.”
“Oh. Quindi sei una brava persona!”
“Spero proprio di sì, ometto.”
“E cosa fai quando non lavori?” chiesi ancora. Avevo così tante domande che avrei voluto fargli…
“Beh, esco con i miei amici, andiamo a giocare a bowling…”
“A bowling?”
“Sì, tu sai giocare a bowling?”
“Certo che so giocare a bowling, ma i miei non è che mi ci portano spesso”
“Allora ti prometto che prima o poi ci andiamo insieme. Che dici?”

Sentivo il cuore scoppiarmi nel petto. Mi sembrava di vivere in un sogno.

“Non vedo l’ora!!!” esclamai. Poi rimanemmo in silenzio per un po’. Io già fantasticavo su tutte le tecniche segrete del bowling che il mio nuovo amico mi avrebbe insegnato. Ad un certo punto, quando pensavo si fosse già addormentato, Alim mi chiese:

“Quindi tuo padre non ti porta al bowling?” aveva qualcosa di strano nella voce, ma all’epoca non ci feci caso. Io, in risposta, scossi la testa. Solo dopo un’istante mi accorsi che, da sotto, lui non poteva vedermi.
“L’ultima volta che ci siamo andati era un sacco di tempo fa… mio papà lavora tanto, sai.”
“mm, ho capito. E tua mamma, invece? Mi sembra che ti voglia molto bene. Non ti ci porta nemmeno lei?”
“Mia mamma mi vuole bene. Certe volte mi dà i baci in pubblico e io mi vergogno. Però non dirglielo questo.”

Sentii Alim ridere di nuovo, sommessamente, forse per non farmene accorgere.

“Te lo prometto.” Sentenziò poi.
“E comunque no, non mi porta al bowling. Ogni tanto andiamo insieme al parco o a prendere il gelato, ma lavora tanto anche lei...”
“Tranquillo, adesso ci penso io a te. Vedrai che ci divertiremo un sacco, insieme.” esclamò lui. “e invece tuo papà e tua mamma… vanno d’accordo?” aggiunse

Io non capii subito il perché di quella domanda, ma in fondo non ci vidi nulla di male a rispondere.

“Lo vuoi sapere un segreto?” chiesi
“Ma certo. Rimarrà solo tra me e te, ometto.” mi sussurrò lui di rimando.
“Beh, mio papà è sempre tanto triste ultimamente, non so perché. Ogni tanto si danno dei baci, con la mamma, ma non come facevano una volta.” soffermarmi su quelle riflessioni mi metteva tanto di cattivo umore quanto mi sollevava invece poterne parlare con qualcuno. Era faticoso a quell’età tenermi tutto dentro, non erano faccende di cui mi sentissi a mio agio a parlare con gli amici.

“Sono cose che capitano. Fidati, vedrai che da adesso in poi andrà tutto per il meglio...”
“Dici?”
“Ne sono sicuro.”


Continua....
Speriamo di non aspettare molto il resto.
 

DivoGiulio

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Si assolutamente,tra l'altro è una storia che va oltre a tutto quello che leggo in questo sito,una situazione veramente esplosiva,poi scrivi anche molto bene.
Un saluto
Giulio
 

sormarco

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taranto
Fatemi sentire la vostra voglia che continui
Beh mi sembra che qualche lettore c'è, poi non tutti commentano, la vita è così tutti vogliamo e non tutti diamo.
Penso di scrivere per tutti quelli che hanno fatto un commento fino ad ora, se ti fa piacere scrivici il resto a noi fai piacere, altrimenti continueremo a vivere senza la fine della storia.
 

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