7.1
In tutti quegli anni, non avrei mai pensato di vederla così. Non mi sarei mai aspettato di trovarmi in una situazione del genere, con lei, né tantomeno di scoprirla così fragile. Ai miei occhi Lucrezia era stata sempre la compagna del bastardo, di conseguenza sua complice. Invece, la realtà dei fatti sembrava decisamente diversa.
"Che cazzo è successo?" domandai esterrefatto. La mia mano si mosse quasi per conto suo, come se fosse scollegata dalla mia volontà: con le dita le toccai il mento con una delicatezza che non credevo potesse appartenermi. Le alzai il volto verso il mio, cosicché io potei osservarla meglio: per un istante, i suoi occhi smeraldini si scontrarono con i miei, azzurri ed indagatori. Il suo sguardo, stavolta, non era quello tagliente di sempre, piuttosto era quello di chi sta cercando di aggrapparsi all'ultimo appiglio, prima di precipitare rovinosamente dalla scogliera. E quell'appiglio, in quel preciso momento, per uno scherzo del destino, ero proprio io.
Quando vidi quello che vidi sentii una vampata accendersi dentro di me. Una sorta di fornace ormai spenta, riattivata dalla maestria di un abile forgiatore. Le fiamme bruciavano la polvere, il torpore veniva divorato dal calore di un fuoco per certi versi indomabile. Io non potevo crederci, non aveva nessun tipo di senso, e dovetti quasi stropicciarmi gli occhi per rendermi conto che quello non era un sogno.
"Io non..." balbettai, mentre continuavo a tenerle il volto alzato. Con una mossa quasi improvvisa lei spostò il capo, sottraendosi delicatamente a quella involontaria carezza. Mi fece cenno di seguirla e mi diede le spalle, dirigendosi verso il salotto. Quella sera non aveva la felpa di suo marito, piuttosto una specie di scialle con cui cercava di coprirsi come meglio poteva, nonostante non fosse per niente freddo.
Io ero completamente bagnato, ma lei non protestò ed anzi non disse nulla a riguardo, nonostante la mia presenza stonasse incredibilmente con la cura maniacale di quel salotto. Tutto quell'ordine iniziava a darmi sui nervi: in fin dei conti ero quasi contento di portare un pò del mio caos.
"Lù...vuoi spiegarmi?" cercai di afferrarla per una spalla, ma lei sgusciò via, di nuovo.
"Non c'è niente da spiegare, non lo vedi?" Si voltò di scatto, mostrandomi ancora una volta il suo volto. Alla luce artificiale della lampadina, quello scempio non faceva altro che mandarmi in bestia.
Lucrezia era stata violata.
Lucrezia era stata colpita.
Il volto rigato dalle lacrime, il leggero trucco sbavato, un triste preludio di ciò che le pieghe della sua carne offrivano. All'angolo della bocca, sul labbro inferiore, aveva una vistosa ferita, tamponata alla meglio. La guancia livida stava iniziando a gonfiarsi e sul mento, poco sotto la bocca, aveva un ematoma violaceo che probabilmente doveva farle un gran male.
Nel vederla rimasi in silenzio per attimi che sembravano interminabili. Da ragazzino l'avevo odiata. Sì, avevo odiato lei, Francesco, Walter e tutta la loro combriccola, che tante me ne avevano fatte, che troppe me ne avevano combinate. Mi avevano fatto sentire uno zerbino, mi avevano quasi rovinato la vita, se non fosse stato per una forza di volontà che non credevo di avere. Io ero stato sempre una "nota a margine", quella che sui libri nessuno legge mai e che spesso viene segnata con una X rossa per toglierla dalla vista. Ero stato come la linguetta di una lattina, piegata ripetutamente fino a spezzarsi, alla quale viene spesso negata la possibilità di una nuova vita dopo essere stata gettata a terra, evitando la lunga trafila del riciclo.
Solo che io, per loro sfortuna, non mi sono mai spezzato.
Ed ora ero lì, di fronte alla donna che credevo di odiare, e che invece avevo riscoperto fragile come un castello di sabbia nel bel mezzo di un tornado.
In un attimo mi resi conto di non detestarla affatto. E c'era dell'altro: ammisi a me stesso di non provare compassione per lei a causa di quello che le era accaduto quella sera, piuttosto le mie emozioni nei suoi riguardi erano mutate da quando l'avevo incontrata di nuovo, dopo vent'anni. Da quella cena, in cuor mio, sentivo di esserle affine, in un certo senso. Dopotutto, mi dicevo, non doveva essere facile vivere accanto a quello scarto d'uomo. Eppure, perché lo aveva scelto? C'erano delle dinamiche che ancora non riuscivo a capire del tutto. Di una cosa ero certo: non era solo il suo aspetto fisico ad attirarmi, anzi, quello era solo un effetto collaterale. C'era qualcos'altro e avevo tutta l'intenzione di scoprirlo.
Feci un passo avanti, lei si allontanò facendone uno all'indietro.
"Ascolta, se non mi parli io non..."
Lei mi interruppe sbottando.
"Cosa cazzo vuoi che ti dica?" una lacrima le scese dall'occhio sinistro.
Sospirai. "Mi hai detto tu di venire."
"Sì, lo so..." balbettò rifugiandosi nel suo scialle. Abbassò il volto ed in breve tempo scoppiò in un lungo pianto senza fine.
Riproposi quel passo in avanti. Lei non si mosse, intravedevo il suo corpo tremare avvolto dalla coperta, sconquassato da un dolore tanto fisico quanto morale.
Non me ne resi quasi conto, le gambe si muovevano da sole. Le palpebre si chiusero involontariamente, lasciandomi cieco per un attimo. Quando le riaprii ce l'avevo tra le braccia, quello scricciolo di donna. Lei mi stringeva la maglia, si aggrappava alla stoffa con le unghie, e premeva il lato del suo volto, quello non tumefatto, al mio petto, dove il cuore batteva come mille tamburi. Il pianto non diminuiva, ed io non potevo fare nient'altro che accarezzarle la schiena.
"Scusa." le dissi ad una certa. Mi venne del tutto spontaneo, ma fu una sorta di salvezza.
lei si irrigidì e cercò uno spiraglio tra le mie braccia per osservarmi. Aveva il viso stravolto dal pianto, oltre che dalle percosse, ma nel suo sguardo serpeggiava la curiosità di conoscere il motivo di quelle scuse sputate senza un apparente senso logico.
"Sono bagnato fradicio, cazzo." dissi.
Per un istante, uno soltanto, comparve l'ombra di un sorriso su quel volto dai lineamenti spigolosi, taglienti, orientali. Ripiombò sul mio petto, era il suo guscio protettivo.
"Stupido..." bofonchiò. Era il suo primo insulto che aveva il significato di un complimento. E stavolta non ebbi bisogno di vederla per sapere che stava di nuovo sorridendo...
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7.2
Rimanemmo in quella posizione per un lungo periodo. Il tempo scorreva, noi due non parlavamo. Alla fine, forse per quella mia stupida frase che era riuscita a smorzare un momento difficile, forse per quella sorta di protezione che le stavo offrendo, lei si sciolse dall'abbraccio e smise di piangere. Sospirò fissandomi in volto, si offrì di prepararmi un caffè. Io rifiutai, ma lei si era già messa all'opera, probabilmente un modo per esorcizzare i funesti pensieri che le vorticavano in testa.
Presi la palla al balzo e cercai di saperne di più, non potevo lasciar correre. Avevo dei sospetti, ma avevo bisogno di conoscere i dettagli, anche se sapevo che le avrebbe fatto male. Io volevo aiutarla, avevo smesso di pensare al passato, almeno con lei. Non potevo e non volevo non far nulla.
"Senti Lù, lo so che potrebbe farti male, ma vorrei sapere..."
"Zucchero?" fece lei interrompendomi di nuovo.
"Mi fa cagare il caffè dolce." tagliai corto.
Non parlò più, mi raggiunse con una tazzina che posai sul tavolino davanti al divano, prima di sedermi sopra di esso. Lei si posizionò sulla poltrona, le gambe strette al ventre, rannicchiata su se stessa. Era una scena già vista, pensai.
Volevo incalzarla, ma fu lei ad anticiparmi.
"L'altro giorno, quando sei venuto..." disse lei senza guardarmi. Fissava un punto imprecisato del pavimeto, lo sguardo come quello di una androide, nemmeno le palpebre si muovevano. "Io ho negato davanti a te, ma hai descritto la figura di Francesco alla perfezione. Non è cambiato di una virgola nel corso degli anni, anzi."
Ascoltavo in silenzio, senza aprir bocca. Interromperla sarebbe stato un grosso errore: si stava sfogando.
"Anzi, è peggiorato. Ha bisogno di controllare la gente, ha bisogno che le cose vadano come lui le ha pianificate. E' un calcolatore, sarebbe in grado di farti credere colpevole di un crimine che ha commesso lui stesso." si prese una pausa e si girò a guardarmi.
Sostenni il suo sguardo: ora rivedevo una sorta di forza in lei, nonostante fosse stata abbattuta da qualcosa che non era in grado di controllare.
"Io non capisco Lù. Non riesco a capire davvero. Sembrava dispiaciuto quando mi ha rivisto. Sembrava volesse chiedermi scusa. Sembrava..." di nuovo mi interruppe.
"...ma non lo ha fatto, vero?"
Scossi il capo. "No. ma sei stata tu a convincermi di quella stupida partita. Non dimentico quello sguardo, alla cena. E sei stata tu a dirmi per messaggio che stava cercando di...com'è che hai scritto? Includermi nelle sue cose per chiedermi perdono, cazzo."
"So cosa ho scritto, so cosa ho fatto." protestò lei debolmente. "Ma che dovevo dirti? Francesco è fuori di testa, fai quello che dice? Sono io che ci vivo insieme, avevo estremo bisogno che tu accettassi il suo invito."
"Beh, no, ma almeno avvertirmi."
"Se le cose non vanno come lui dice diventa pazzo. Ecco perché ti ho chiamato l'altra sera. Era una furia a casa, non trovava pace. Me ne sono stata in silenzio per non disturbarlo, ma avevo bisogno di capire da te. Mi hai detto cosa è accaduto, nelle docce. Ed è plausibile che lui invidi il tuo fisico, quello che lui aveva anni fa e che ora è un lontano ricordo. Tu, per lui, rappresenti il suo fallimento."
Strabuzzai gli occhi. Non riuscivo a credere alle sue parole.
"Il suo...cosa? Che cazzo mi stai dicendo?"
"Già, il suo fallimento. Non è riuscito ad abbatterti. Ed ora hai qualcosa che lui non ha. Sei migliore di lui in almeno un campo, forse due visto come giochi a calcio e credimi...anche quello gli pesa. Lui vuole vincere sempre."
La freddezza con la quale mi stava descrivendo Francesco metteva i brividi. Mi faceva incazzare più di quanto non lo fossi già e sentivo di essere sul punto di non ritorno.
"Ti rendi conto..." le dissi "...di quello che stai dicendo?"
Lei annuì mesta.
"Come è arrivato a..."
"a questo?" indicò il proprio volto.
Io annuii, non smettendo di guardarla.
"Che vuoi che ti dica Remo. Mi sono fatta coraggio e gli ho chiesto quello che mi avevi detto di chiedergli. Ho impiegato giorni per trovare la forza di fargli quella domanda. Sapevo che stasera se ne sarebbe dovuto andare per lavoro e questo pomeriggio mi sono decisa. E beh, non è andata. Non solo non ha voluto rispondermi, ma è letteralmente impazzito. Mi ha detto che sono... una
troia..." lo disse con difficoltà. "...che non devo pensare a certe cose, ma io non ho la più pallida idea di cosa voglia dire" abbassò lo sguardo, distogliendolo dal mio.
"Lascia perdere questa storia." taglia corto io. "Io non posso crederci. Te lo giuro, è tutto così folle. Non si tratta più di bullismo, ti ha picchiato te ne rendi conto vero?"
"Sì che me ne rendo conto, ma cosa vuoi che faccia?"
"che lo denunci, forse?"
"Tu la fai facile, ma non è così semplice. Lo sai che carica ricopre lui?"
Non lo sapevo, ma non mi importava.
"Ma chi cazzo se ne frega Lù, rovini la tua vita per non rovinare la sua carriera?" mi alzai in piedi imbufalito, feci un giro su me stesso come un pazzo alla ricerca di chissà cosa. Lucrezia aveva paura di Francesco, ma quello che mi faceva arrabbiare era la sua totale sottomissione a quella situazione. In quell'istante le domande che mi ero posto in precedenza avevano trovato risposta. Ecco perché lo aveva scelto, per timore. Ed ecco che cosa mi legava a lei: quello che io avevo provato per Francesco, in passato, era la stessa sensazione che ora albergava nel cuore di Lucrezia.
Scuotevo la testa, ero inferocito.
"Io non posso accettare questa cosa. Non posso e non intendo farlo."
"E lo farai invece." disse lei quasi stizzita.
Mi voltai a guardarla, i miei occhi erano come braci ardenti.
"Che cazzo mi hai chiamato a fare allora?"
"Io non..." sospirò, stringendosi di più le gambe al suo petto. "Non voglio passare la notte da sola. Ho paura. Puoi dormire sul divano?" mi guardava come un cucciolo senza madre, una richiesta disperata d'aiuto.
Il mio petto si sgonfiò dopo un lungo sospiro. "Che cazzo però, Lù." Non le avrei mai detto di no, ma speravo che la mia presenza potesse aiutarla a reagire. Invece mi aveva chiamato solo per non rimanere sola, e la questione non faceva altro che alimentare le fiamme della furia dentro di me.
In cuor mio sapevo che lei non avrebbe mai mosso un dito per cambiare la situazione. Era succube di un marito padrone, di un uomo che la trattava come uno zerbino.
Ora era lei la "nota a margine".
Ora era lei la linguetta della lattina.
E stava quasi per spezzarsi...ma io non lo avrei permesso.
Francesco mi aveva stancato. Le sue trame dovevano essere interrotte. E lo avrei fatto, lo giurai a me stesso.
A modo mio...